Lette e … riviste – "A kind of sunny desperation": Robert Towne, L.A. stories
"Forget it, Jake. It's Chinatown". Ogni posto ha il suo narratore. Los Angeles ha Robert Towne. Dall'esplorazione della classe agiata e dei suoi conflitti morali in “Shampoo” (1975) e “Tequila Sunrise” (1988), allo star system di “Mission: Impossibile”, fino a “Chiedi alla polvere”: FilmMaker intervista Towne alla scoperta della sua meditazione visiva
Mentre gli apprendisti sceneggiatori della West Coast siedono nei coffee shop e studiano la sceneggiatura di Chinatown – base del celebre manuale di Syd Field – Robert Towne è già approdato ad una nuova, più romantica visione della Los Angeles dei vecchi tempi. E' l'anno 1933 lo sfondo di Chiedi alla polvere, che il regista ha adattato dal romanzo cult di John Fante, raccontando la storia d'amore tra un giovane italoamericano (Colin Farrell) e una cameriera messicana (Salma Hayek).
FilmMaker: Cosa è stato ad attrarti in Ask the dust?
Robert Towne: Il fatto che nessuno, prima, avesse mai catturato la Los Angeles dei miei ricordi di bambino – l'atmosfera, l'ambiente, fino davvero alla polvere nell'aria. Avevo dimenticato quella città, finchè non ho letto il romanzo di Fante: che davvero ti porta dentro all'idea che Los Angeles è, prima di tutto, uno stato mentale. […]
FM: Hai conosciuto John Fante?
Towne: Sì. Dopo aver letto il libro, l'ho cercato, non potevo fare altro. Viveva a Malibu. Non particolarmente entusiasta di incontrarmi, un tipo scontroso – proprio come Bandini, il protagonista…quando gli dissi che avrei voluto fare di Ask the dust un film, mi rispose: "Cosa ti fa pensare di essere in grado di adattare qualcosa? Quali sono i tuoi credits?" Ovviamente non ne avevo. O meglio, avevo lavorato a The Godfather e Bonnie e Clyde, ma non ero stato accreditato. Quando gli dissi che secondo me era un grande romanzo, la sua risposta fu: "Perché il tuo giudizio dovrebbe valere qualcosa?" Probabilmente ci fu lo zampino della moglie…"Questo bravo ragazzo è l'unico davvero interessato al tuo libro…perché non provi almeno a parlarne?" E poi è iniziato tutto, e il nostro rapporto è durato per gli ultimi tredici anni della sua vita.
FM: Immagino che lavorare alla storia di un ambizioso scrittore sia stato per te qualcosa di personale…
Towne: Certo. Uno scrittore sconosciuto arriva a Los Angeles e vuole sfondare. E' uno straniero, come tutti quelli che arrivano là per realizzare il loro sogno. E scrive esattamente di questo: racconta di persone che hanno un sogno da realizzare, e lo fa per realizzare il proprio. Questo ha fatto scattare in me l'identificazione. Insieme alle sue caratteristiche, che sono quelle di ogni scrittore arrabbiato: maniaco-depressivo, ipocondriaco, apparentemente pazzo, emanciato, costantemente a confronto con le proprie capacità. Come può qualsiasi scrittore sconosciuto non identificarsi?
FM: L'unico film che forse si avvicina a un simile ritratto della città è Chinatown, e l'hai scritto tu. Qual è la differenza tra la Los Angeles di quel film e quella di Ask the dust?
Towne: La Los Angeles di Chinatown è molto più minacciosa. Jake Gitten si muove tra crimini e complotti – praticamente le fondamenta del luogo. La Los Angeles di Ask the dust è un invece un posto di disperazione quieta…una specie di disperazione assolata.
FM: Sembra un personaggio, né più ne meno che gli attori…
Towne: E' uno dei personaggi principali. E' quello che pervade l'agire di tutti gli altri. E' un luogo di illusione e speranza e, come dice la vecchia canzone di Dr. Demento ('Pico and Sepulveda')…"where nobody's dream comes true" [ride].
FM: Los Angeles è stata capace di farti tornare da lei, per girarci un film. Perché?
Towne: Credo che sia un posto che continua ad auto-distruggersi, da un decennio all'altro. Ma allo stesso tempo è ancora la classica fabbrica dei sogni, là dove, dal 1848, la gente continua ad arrivare per svoltare la propria vita – con l'oro, il petrolio, gli immobili, il cinema, la religione, o semplicemente lasciando indietro la propria identità e provando a reinventarsi da capo […]
FM: Molti registi sono fortemente legati al posto in cui lavorano, mentre il tuo sembra un legame sofferto…
Towne: E' vero, i miei sentimenti sono molto ambivalenti. Un pittore dipinge con la luce che ha disposizione, ed è il tipo di luce a cui è abituato. Poi puoi sia amarla che odiarla, no?
FM: Il film è visivamente straordinario. Come ti sei mosso per ritrarre la città?
Towne: Volevamo creare la 'nostra' città, ma quella Los Angeles non esiste più. Puoi vedere Downtown Bunker in qualche vecchio film. Abbiamo cercato fotografie e altre fonti antiche, e abbiamo deciso di riprodurre quella zona sul set, con il Third Street Tunnel e i vecchi edifici. Lo scopo era far arrivare al pubblico una ricostruzione visiva di quel periodo. Una sorta di 'distillazione' della città. Abbiamo realizzato il tutto in due campi da football a Capetown, SudAfrica. Con un budget piuttosto ridotto.
FM: Ma il risultato è da high budget…
Towne: Nessuno di noi è stato pagato. Letteralmente, ogni soldo che avevamo a disposizione l'abbiamo usato per allestire il set.
FM: Com'è stato, rispetto alle altre produzioni?
Towne: Duro. Avevamo 50 giorni. In terra straniera. Ma da una parte questo è stato un bene, perché ci ha dato davvero la sensazione di aver ricreato la 'nostra' Los Angeles. Non c'era nessuna delle anomalie della città contemporanea con cui doversi confrontare a fine giornata…eravamo dentro la 'nostra' città.
FM: Fai parte della generazione dell'ultima 'età dell'oro' di Hollywood, tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta. Come pensi che sia cambiata Los Angeles in quanto capitale del cinema?
Towne: L'abisso tra i grandi studi di produzione e il cinema indipendente si è allargato sempre di più. I cosiddetti film indipendenti di oggi allora sarebbero stati supportati da una major. Oggi non è così. Il processo grava in gran parte sul regista – cercare i finanziamenti, ottenerli…per Ask the dust avevamo bisogno di un set, ma non abbiamo concretamente avuto soldi finchè non è arrivato il primo giorno di riprese. Un film indipendente non è mai davvero finanziato finchè non si comincia a girare. Questo è avvilente e frustrante.
"L.A. stories" di Mattwew Ross – da FilmMaker, primavera 2006-05-16 http://www.filmmakermagazine.com/spring2006/features/la_stories.php
traduzione di Annarita Guidi
FilmMaker: The Magazine of Independent Film è il quadrimestrale del cinema indipendente americano. La rivista è l'organo ufficiale della IFP – Independent Feature Project, fondata nel 1979 come organizzazione no-profit che sostiene il cinema indipendente e ne garantisce la visibilità, nella convinzione che un cinema vitale sia un cinema che riflette pienamente tutta le diversità e le idiosincrasie della cultura americana. La IFP agisce sulla formazione professionale, sui progetti individuali e sul pubblico: FilmMaker è nato nel 1992, il suo editore (Scott Macualay) è un produttore indipendente, la linea della rivista è basata sull'autenticità nel comunicare la realtà del lavoro 'dietro le quinte' del cinema. E tutto questo si riflette anche nel sito web, dove gli articoli principali di ogni numero (dalla prima uscita ad oggi) sono disponibili on-line, e dove la (sterminata) sezione 'Resources' offre un supporto agli 'indie filmmakers' con nomi e credenziali di strutture e persone per ogni step della creazione cinematografica, dalla pre- alla post-produzione, dalle attrezzature alle scuole, dai finanziamenti alla distribuzione. La sezione 'Fest Circuit' ospita i festival del cinema organizzati per deadline, e la rivista si conferma una miniera di approfondimenti e una fonte di visibilità per chi si muove nel mondo del cinema indipendente americano. (a.g.)