LETTE E… RIVISTE – "Con un movimento impercettibile, i demoni più neri balzano in avanti e si impossessano di noi": William Friedkin e la paranoia di "Bug"

Tratto dalla claustrofobica opera teatrale di Tracy Lett, “Bug” segna il ritorno di Friedkin alla paranoia contagiosa e diffusa, al film 'di attori', ai nervi scoperti. Il regista di "The French connection" e "L'esorcista" racconta a 'Cinemascope' il suo lavoro, le sensazioni sul cinema e le incursioni nell'Opera

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Tratto dalla claustrofobica opera teatrale di Tracy Lett, Bug segna il ritorno di Friedkin alla paranoia contagiosa e diffusa, al film 'di attori', ai nervi scoperti. Quando le tensioni e i toni d'ombra – accuratamente orchestrati nella prima parte – esplodono brutalmente in un'altra dimensione e ad ogni svolta si sfiora l'assurdo, sono proprio il disegno dei personaggi (cinque in tutto) e la straordinaria interpretazione degli attori a contenere il potenziale deragliamento del film.

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Andrew Tracy: Perché proprio l'opera di Lett?
William Friedkin:
E' di dieci anni fa, è stata rappresentata a Londra e Chicago. Io la vidi due anni fa a New York, off Broadway. Fu una scossa. Pensai che era stata scritta per me. Ne parlai ad Ashley Judd, lei ne fu conquistata. E'iniziato tutto da lì… abbiamo realizzato il film in 20 giorni con 4 milioni di dollari e, dato che non ci sono particolari effetti speciali, posso dire che ci siamo concentrati solo sul materiale che avevamo.


AT: Sei generalmente considerato parte del gruppo della New Hollywood anni Settanta, ma non sembri aver creato un tuo stile come altri cineasti…
WF:
I temi che attraversano i miei film sono quelli: il sottile confine tra bene e male e come  – con il più impercettibile dei movimenti – i demoni più neri possano balzare in avanti e impossessarsi di noi. E non c'è bisogno che io vada a caccia di queste storie: sono loro a trovarmi, in un modo o nell'altro. Sicuramente Bug è un ritorno ad un periodo remoto della mia carriera: ho fatto film simili negli anni Sessanta, tipo The Birthday Party e The Boys in the Band, tratti rispettivamente dalle opere di Harold Pinter e Mart Crowley. Entrambi sono adattamenti dal teatro, girati praticamente in un'unica location.


AT: L'inizio del film monta un interno straniante con una bellissima scena in esterno, quella dell'elicottero. Bug è un dramma paranoico, tutto quello che avviene 'dentro' sembra venire dalla minaccia del mondo che è fuori…
WF:
E' esattamente quello che intendevo. Quello che ho visto nell'opera teatrale è un'intensità immediata: la paranoia rappresentata è reale. Io credo che i discorsi di Peter (Michael Shannon) siano validi. Capisco da dove viene e in una certa misura non è un pazzo, è solo 'estremo'. Ci sono probabilmente centinaia di persone là fuori che condividono le paure di Peter, anche se non il suo modo di affrontarle. L'idea centrale della sceneggiatura è potente – la facilità con cui la paranoia si diffonde come un contagio quando le persone si sentono minacciate, non importa se il pericolo è reale o immaginario. E io credo che molte persone, oggi, si sentano così.


AT: Come lavori con gli attori sul set?
WF:
Dipende dagli attori. Con Tommy Lee Jones o Sam Jackson hai una brevissima conversazione sui loro personaggi e la storia; dopo che gli hai dato la tabella di marcia, non c'è molto altro da dire. Soprattutto per non rischiare di rovinare qualcosa. Poi ci sono attori come Benicio del Toro, che hanno un'infinita necessità di confronto e discussione: sul personaggio, il suo background, le idee e i temi sottostanti la sceneggiatura. Benicio ha bisogno di sviluppare psicologicamente il personaggio che interpreta e la maggior parte degli attori che ho diretto lavorano così. Tommy Lee e Sam invece arrivano il primo giorno di riprese e…they got it. E tu lo sai.

AT: E con gli attori di Bug?
WF:
Io e Ashley Judd abbiamo parlato tantissimo del film prima di iniziare a girare ed eravamo davvero in sintonia. Ottenere la performance di Shannon ha richiesto molte discussioni e modulazioni. Lui è soprattutto un attore di teatro, ha recitato in piccole parti nel cinema, anche se ha un bel ruolo in World Trade Center. Shannon diventa il personaggio. A un certo punto devi renderti conto che stai parlando al personaggio, non a lui. E quando cerchi di modulare un po' la sua recitazione, lo prende come un insulto! Connick invece l'ho incontrato a un party prima di iniziare il casting. Ho visto in lui molto del personaggio di Jerry. Gli ho mandato la sceneggiatura e gli ho detto di alcuni suoi comportamenti che avevo osservato: sapeva esattamente di cosa parlavo. C'è una parte di lui che ama ingannare/deridere le persone, come fa Jerry.


AT: Connick è fondamentale per il film, attualizza  in modo molto potente il tono di minaccia nella prima parte…
WF:
Sì, prepara la scena per la minaccia, anche se non è lui il pericolo. La paura che lui crea muove invece a Dr. Sweet, che è interpretato da uno dei migliori attori di teatro del mondo anglosassone: Brian F. O'Byrne. E' un genio assoluto. C'è bisogno di un attore di questa portata anche in quello che sembra un ruolo secondario. Basta una nota stonata per far precipitare l'insieme. In un film il 50% è dato dalla sceneggiatura, il 45% dal cast; se il restante 5% (quello che faccio io) funziona bene, allora gli attori possono portare il film alle stelle. Ma senza il giusto cast e una buona sceneggiatura non succederà niente.


AT: Bug dà molto respiro agli attori, molto spazio. Quello che non si vede spesso nel mainstream USA, dove anche registi veterani adottano il montaggio velocissimo…
WF:
Bè, cercano di tenersi al passo con il trend. Io non lo sopporto. Spesso serve a nascondere la mancanza di materiale valido. Raramente mi piacciono i film americani che vedo. Sono molto interessato all'Europa, alla Francia – per esempio Haneke: The Piano Teacher, Caché, questo è cinema per me. Li rivedo in continuazione.


AT: Influenze sul tuo lavoro?
WF:
A questo punto non posso cambiare quello che faccio, è difficile ora essere influenzati da qualcosa. Ho sviluppato i miei interessi e il mio approccio, anche se i miei film non hanno un 'marchio', uno stile visivo particolare. Quello che condividono è il rispetto per il materiale e la concentrazione sui personaggi. Devo dire però che l'Opera – ne ho dirette moltissime negli ultimi anni: 'Wozzeck' a Firenze, 'Samson and Delilah' a Tel Aviv, 'Aida' a Torino prima delle Olimpiadi…ora sto preparando 'Bluebeard's Castle' e 'Gianni Schicchi' per aprire la stagione al Kennedy Centre, prima di andare a Monaco per realizzare 'Salomè'  – ha contaminato sicuramente qualcosa. Dirigere un'opera non è molto diverso da dirigere un film: a parte il fatto che non c'è la macchina da presa… Questo lavoro mi ha reso molto più consapevole di cosa è importante in entrambe le arti. Se Bug è un buon film, lo devo anche a questo.


"Scratch that itch: William Friedkin on Bug", di Andrew Tracy – da CinemaScope, ottobre 2006
www.cinema-scope.com/cs28/int_tracy_friedkin_bug.html 


traduzione di Annarita Guidi

CinemaScope, edito a Toronto, è il mensile canadese di cinema supportato dal Canada Council For Arts e dall'Ontario Arts Council. Oltre a dedicare ampio spazio alle recensioni e alla parte più tradizionale della critica cinematografica, CinemaScope è molto attento al panorama DVD, alle contaminazioni tra cinema ed altre arti e al rapporto tra celluloide e industria editoriale. Ogni mese la sezione 'spotlight' mette in primo piano un approfondimento: dal cinema anglosassone/canadese ai film non distribuiti, dai segmenti di storia del cinema all'attualità dei vari festival. Il taglio della rivista tende poi soprattutto a focalizzare l'attenzione sui singoli autori, sia attraverso lunghe interviste che con servizi monografici. Il sito della rivista, visivamente curatissimo, rende disponibili on-line molti degli articoli di tutte le sezioni, oltre che i contenuti dell'archivio e l'abbonamento o acquisto di copie.

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