LETTE E…RIVISTE – La generazione successiva

Questo mese i “Cahiers du Cinéma” tracciano un'analisi della cinematografia americana degli anni ottanta, dal punto di vista di ciò che ne è rimasto nel cinema di oggi. Una restaurazione ideologica ed estetica che ha lasciato tracce che non si possono ignorare nella Hollywood contemporanea…

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Tentare di vedere ciò che rimane del cinema degli anni ottanta significa inglobare simultaneamente un periodo molto più vasto che, all'incirca da Guerre stellari (1977) fino a oggi, non ha conosciuto alcuna rottura, né è stato segnato da un fatto storico decisivo. Gli anni ottanta, spesso considerati come il "peggior" decennio per il cinema hollywoodiano, sono stati seguiti da un periodo di indeterminatezza e di mutamenti tecnologici, senza che nessun capovolgimento ideologico venisse a metterne in discussione, in modo duraturo, le loro vestigia reaganiane. Cosa sono di preciso gli anni ottanta? Un'avventura singolare e gigantesca (Spielberg, Dante, Zemeckis); il trionfo di un manierismo visuale proveniente dai videoclip e dalla pubblicità (la corrente dei cineasti britannici provenienti dalla BBC: Lyne, Parker, Ridley e Tony Scott, la creazione di MTV nel 1981, Michael Mann); la nascita, infine, di un genere (il film d'azione) che ha ridato corpo all'American hero sconfitto degli anni settanta. Questi tre movimenti furono tutti in rapporto, in modo più o meno cosciente, con la doxa ideologica del periodo (fuga dalla realtà per Spielberg, apologia dei valori reazionari nei drammi morali di Adrian Lyne o di Alan Parker, discorso interventista con la nascita di produttori accaniti militaristi). Gli anni novanta, quindi, possono essere considerati come una verifica di quegli anni attraverso la continuità: un filtro, o un imbuto, attraverso cui si delinea l'intero panorama del cinema hollywoodiano contemporaneo.

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Film d'azione e persistenza reaganiana


 Se il successo del film d'azione non è mai stato messo in discussione da un punto di vista commerciale, un lento ribaltamento l'ha visto uscire dalle tematiche che l'hanno fecondato (i parassiti sociali, il Vietnam riveduto e corretto, questioni che furono la maggiore ossessione degli anni ottanta dalle mediocri produzioni Golan-Globus – Delta Force ecc. – ai film anticomunisti di John Milius) per andare verso delle realtà più sfumate. In seguito alla caduta delle figure più emblematiche (lo Stallone di Rambo 2 – La vendetta, lo Schwarzenegger di Commando), il film d'azione militarista trova un altro sbocco nella fantascienza e nell'esagerazione megalomane, tra l'angoscia diffusa di fine secolo (da Indipendence Day a Armageddon) e la nostalgia irreale (Pearl Harbour). Da questo gorgo ancora ribollente emergono un gruppo di figure emerse dagli anni ottanta la cui situazione permette di tracciare la cartografia dello stato estetico e ideologico del film d'azione oggi.


Innanzitutto Jerry Bruckheimer le cui produzioni, da The Rock a Bad Company, hanno continuamente successo e testimoniano della persistenza dei fondamenti reaganiani del genere: una cifra visiva molto precisa (Michael Bay o Simon West ossia il découpage fortemente marcato e l'utilizzo dei filtri come strumento di propaganda attraverso l'eliminazione di ogni traccia di realismo), un'ossessione per l'esercito e i temi populisti (sicurezza, patria), soprattutto la capacità di passare all'improvviso da questi temi alla fantasia più sfrenata. Ridley Scott è un esempio intermedio: ai margini negli anni novanta, è poi rinato commercialmente con Il Gladiatore (2000) e si è gettato istantaneamente nelle braccia di Bruckheimer (Black Hawk Down). È una prova che il cinema di azione è indissociabile, oggi, dalla figura di un produttore onnipotente, ma anche di un possibile e fertile ribaltamento di status: Black Hawk Down è debitore sia a Scott sia a Bruckheimer per il suo sorprendente ultra-realismo sensoriale (il punto di equilibrio mantenuto tra strategia minuziosa e macello sul campo di battaglia) e allo stesso tempo, forse per la prima volta in una produzione Bruckheimer, presenta la possibilità di una dualità autore/produttore.


James Cameron e John Mc Tiernan, i due più grandi cineasti d'azione apparsi negli anni di Reagan, hanno realizzato negli anni ottanta dei film che si avvicinavano al sistema dominante. Il primo con Aliens (1986) e i suoi bellicosi marines, il secondo con Predator, archetipo del film di successo dell'epoca, o Caccia a ottobre rosso. Eppure entrambi si sono rapidamente allontanati da ogni circuito ideologico per concentrarsi solo su delle questioni estetiche: la sfida tecnologica per Cameron, la ricerca di nuove potenzialità formali per McTiernan. Mentre Cameron se l'è cavata con il successo che si sa, McTiernan non ha cessato di porsi al di fuori dal sistema, fino a trovarsi oggi escluso da qualsiasi progetto veramente personale (le scelte degli studio dominano la maggior parte dei suoi ultimi film). C'è in McTiernan e nel suo ricorso a tecniche documentaristiche, a partire da Duri a morire, una volontà di passare a un'altra cosa, di infrangere ogni norma estetica. McTiernan, come Verhoeven per altre ragioni (l'apparizione del reale all'interno del puro spettacolo, l'effetto speciale come corpo politico) occupa oggi il posto dell'artista all'interno dell'industria stessa, irriducibile contestatore dall'ispirazione sempre più personale. Una posizione che gli costa regolarmente delle dolorose delusioni.

L'asse Spielberg – Michael Mann


Cosa resta oggi del manierismo visivo, che può essere considerato come il movimento plastico caratteristico degli anni '80? I suoi principali iniziatori (Lyne, Parker, Tony Scott) si sono dispersi a partire dalla fine del secondo mandato di Reagan. Il solo cineasta che ha veramente rinnovato il marchio depositato eighties potrebbe essere Michael Mann. Se lo stile pubblicitario fu spesso consacrato alla propaganda reaganiana (Attrazione fatale), Mann si smarcò molto in fretta dall'ideologia dominante, come Friedkin con il nichilista Vivere e morire a Los Angeles o De Palma con l'ironico Scarface (1984). A partire da Manhunter (1986), Mann non ha cessato di lavorare sull'estetica della superficie (riflessi, filtri, ricerca dell'estrema levigatezza dell'immagine) fino ad elaborare , con Insider, il prototipo più riuscito di una sorta di neoclassicismo depurato. In Mann il manierismo visivo, spesso ridotto alla semplice esibizione dei suoi effetti, si interiorizza e ribalta la sua posta originaria – il rifiuto della profondità – fino a divenire un mezzo di investigazione mentale. Attraverso le lunghe odissee interiori di Insider o di Alì, è un po' come se si fosse alla fine forata la superficie per passare dietro lo specchio, in una dimensione più oscura e sotterranea. Adrian Lyne con Allucinazione perversa (1990), una storia di un ossessione che ha come retroterra il Vietnam, fu il primo ad inaugurare questa via. Ma è stato Michael Mann che ha permesso di aprire, sfruttando nella maniera più complessa possibile tutto l'armamentario dei regimi di immagini sviluppatisi negli anni ottanta, nuovi campi a un sistema estetico ermetico portandolo simultaneamente in avanti (la presa in carico dei mutamenti tecnologici obbligati) e indietro (il ritorno alla fiction politica degli anni settanta e a un certo realismo sociale). Non è vano osservare ciò che lega oggi Michael Mann all'altra figura emblematica degli anni ottanta, Steven Spielberg. Spielberg e i suoi compari Lucas e Zemeckis si dedicano per primi alla rivoluzione tecnologica avviata da Guerre Stellari: Se il meraviglioso sembra avere definitivamente passato la sua età dell'oro, Spielberg rivive oggi una seconda giovinezza con dei film che, mentre fingono di ritornare alle origini (la fantascienza), si aprono come in Mann a una presa in carico della rilevanza politica dei nuovi regimi di immagini. A.I. e Minority Report segnano un'apertura verso qualcosa di inatteso: la frattura, come una parte di reale disincantato, e la maturità di un cineasta che si è aperto infine al mondo. In Zemeckis lo stesso fenomeno è centrale in Cast Away (2000): l'idea di un nuovo inizio (i due cineasti non sono mai stati così in basso come negli anni novanta e mai così in alto come adesso) che si fa carico di tutto quello che gli stessi rifiutavano nella bambagia degli anni ottanta: la nefandezza politica (Minority Report), umana (A.I.) o semplicemente sociale (Cast Away).


Sono sufficienti due nomi per stabilire il legame tra lo Spielberg degli anni ottanta e quello odierno. Innanzitutto Tim Burton, erede illegittimo di Spielberg, il cui Edward mani di forbice prosegue nell'immaginario di E.T. e di Incontri ravvicinati del terzo tipo (incanto delle periferie, meraviglioso che emerge dai quartieri californiani composti da villette a schiera) profondendolo di ossessioni più marcatamente malinconiche. Ma anche Kevin Reynolds, allievo tra i più promettenti (Fandango, Belva di guerra), il quale ha visto la sua carriera bloccata di netto con il flop del monumentale Waterworld nel 1992. Con Waterworld, film di estrema virtuosità tecnica, è tutto il cinema meraviglioso degli anni ottanta che tramonta. Troppo viziato (un budget colossale), troppo candido (è un immenso film naïf), troppo in ritardo sul suo ideale infantile. La strada dei blockbuster a questo punto sarà doppia: fedeltà pedissequa allo schema del film d'azione anni ottanta (Bruckheimer, quindi), o piuttosto fuggire verso delle sperimentazioni cinetiche in tutte le direzioni, l'ombra di Hong Kong si avvicina fino ad arrivare al punto finale di collisione: la mini-rivoluzione di Matrix che scuote Hollywood alla vigilia del 2000.


Ecco forse stabilita l'eredità di ciò che un decennio non ha fatto che abbozzare: la nascita di nuove forme, l'inizio di una vasta metamorfosi di immagini e il loro recupero lento e doloroso da parte di un sistema che si è affrancato a poco a poco dall'ideologia dominante che lo ha visto nascere. Questa improvvisa presa di coscienza delle questioni tecnologiche non più solamente legate alle nozioni di spettacolo e fantasia, in Spielberg e Zemeckis (Dante, Cronenberg e Carpenter l'avevano capito prima di tutti), congiunge un movimento più vasto che, da Mann a McTiernan (Rollerball e il suo sogno rivoluzionario), passando per Verhoeven e Burton, tende dolcemente a confermare che gli anni ottanta, il nostro amore giovanile, non saranno passati invano.


 


Articolo di Vincent Malausa, traduzione dal francese di Emanuele Marchesi.

Dai Cahiers du Cinéma di Marzo 2003, numero 577

 


Cosa dire della rivista di cinema più famosa e influente del mondo? Poco che non si sappia già, se non che in questo mese è in uscita con due numeri molto interessanti. Quello della serie regolare, con uno speciale sullo stato dell'industria cinematografica americana oggi, con interviste, saggi e monografici su autori particolarmente in vista, come Todd Haynes, Gus Van Sant e Larry Clark. Più "di nicchia", ma forse capace di aprire orizzonti non molto conosciuti, è il numero fuori serie sullo stato del cinema algerino.

Purtroppo tutto ciò non è consultabile in rete poiché quello che era il ricco sito dei Cahiers è da qualche tempo in una ristrutturazione che sembra dover durare ancora un poco. (E.M.)

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