Lette e…riviste – La scrittura secondo Robert McKee
Docente di sceneggiatura tra i più celebri, Robert McKee ha indossato diverse vesti lungo la sua articolata carriera nello show business. Quando studiava all'Università del Michigan ha diretto e preso parte a più di 30 produzioni. Dopo la laurea è andato in tournée con l'Association of Producing Artists Repertory Comedy, apparendo a Brodway con grandi nomi come Helen Hayes, Rosemary Harris e Will Geer. Successivamente si è trasferito a Londra per lavorare come direttore artistico al National Theatre, dove ha studiato le produzioni shakespeariane all'Old Vic. Ha diretto anche due corti vincitori di premi. Negli anni '80 ha rivolto la sua attenzione alla sceneggiatura.[…] A metà degli anni '80, McKee si è recato alla University of Southern California ed ha iniziato a proporre il suo ormai celebre corso di Story Seminar. Da quel momento è arrivato a portare al seminario più di 40.000 studenti in tutto il mondo (e il libro correlato, Story, è alla sua 19ma ristampa). Nell'autunno 2002, McKee è stato interpretato sullo schermo dall'attore Brian Cox in Adaptation. […]
D – A parte lo scopo evidente di far ridere, c'è qualcosa di intrinsecamente diverso tra la buona idea per una commedia e quella per un soggetto drammatico? Ad esempio, io ho l'impressione che le premesse per la commedia si fondino sulla molteplicità delle opzioni, mentre i drammi sono più diretti. Fondamentalmente, la premessa di una commedia è qualcosa tipo "il protagonista fa X per ottenere Y ma finisce con Z".
R – Questa è anche la premessa di tanti film drammatici. Edipo Re vuole salvare la sua città dalla piaga perché qualcuno ha commesso dei crimini che vi hanno gettato una maledizione. Vuole X ma scopre Y e non ottiene ciò che voleva, o almeno non come pensava. Ma occorre stare molto attenti a non confondere premesse e concetti definitivi. Una premessa è "cosa accadrebbe se il re di un paese, come Edipo, decidesse di fare il detective e scoprire chi è il criminale che ha maledetto la città causando la piaga?". Questa la premessa. Mentre il concetto definitivo è il significato del lavoro, e non viene rivelato fino al colpo di scena finale. Quindi la premessa è ciò che ti spinge a scrivere all'inizio, ma è l'idea-base che dà senso al lavoro definitivo.
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Quindi lei parte da una premessa e inizia a scrivere senza sapere dove finirà, lasciando che l'idea si sviluppi in modo organico? Credo sia ciò che ha fatto Paddy Cheyefsky con Network. D'altra parte che gliene pare del modello opposto, che è in qualche modo quello adottato dal suo libro, e cioè partire con una struttura e un numero di idee fondamentali già stabilite, così da conoscere almeno il finale o il climax verso cui si sta andando?
No, non ho mai detto niente del genere. Se torna al capitolo sul processo di scrittura, credo che troverà l'invito a cominciare da una qualsiasi ispirazione. Questa può trovarsi a metà della storia, verso l'inizio, oppure alla fine, o magari non farne nemmeno parte. Basta iniziare a lavorare e, prima o poi, andando avanti e indietro, si scopriranno i personaggi e la storia, e prima o poi comparirà un qualche incidente, quindi le implicazioni successive e una crisi, un suo culmine e poi la soluzione. Ma chi diavolo conosce il momento in cui tutto ciò si presenterà?
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D'accordo. Nel suo libro sostiene che dovrebbero esistere tre o più varianti di ogni scena, in modo da presentare modi diversi di narrare situazioni come ad esempio "il protagonista perde il lavoro".
Ce ne vorrebbero dozzine…
Pensarle è una cosa, ma scriverle è un'altra. Puoi pensare a una dozzina di modi per dire una cosa e poi scegliere il migliore…
La scoperta non funziona così. O ci si ritrova al punto di partenza. Ho pochissima pazienza con i giovani scrittori che si avvicinano a questa forma d'arte pensando che sia facile, o che dovrebbe esserlo e dovrebbe accadere tutto in fretta, e vorrebbero sapersela cavare in un paio di settimane, e credono ci sia una qualche formula magica e che una volta trovata allora ecco quella dannata storia che si riversa da sola nella tua penna!
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Ok. Analizzando i film secondo (quello che mi sembra) il suo approccio, ho talvolta difficoltà a distinguere una scena da una sequenza. Come se il confine fosse sfocato e il primo atto contenesse delle scene mentre le sequenze sconfinano spesso nel Secondo…
Non è vero. In una prototipo di sceneggiatura, il primo atto spesso contiene dalle tre alle quattro sequenze.
Suppongo che diversi "guru" della scrittura usino termini simili in contesti diversi. Syd Field parla di set pieces e sequenze nel secondo atto. Come esempio usa la scena della cena di Titanic. Il personaggio di Di Caprio entra e si fa valere di fronte a quel gruppo di ricchi, e quella sequenza, o set piece, dura circa venti minuti…
Chi stabilisce la lunghezza di una sequenza? A volte una scena singola ha il potere di una sequenza. Certe volte si tratta di due, tre, quattro, cinque scene. È tutto troppo in divenire per speculare sull'effettiva durata di una sequenza. Chi la conosce? A mio avviso è importante avere chiara la distinzione tra cambiamenti minori, maggiori, moderati e assoluti. Una scena semplice provoca un cambiamento moderato, anche se magari significativo. Una sequenza è una serie di scene culminanti in una sequenza climax che crea un cambiamento moderato. Una serie di sequenze costruisce un atto che culmina in un cambiamento maggiore. Una serie di atti costruisce una storia che culminerà in un cambiamento assoluto, irreversibile (questo negli schemi classici). Così queste idee di cambiamento minore, moderato, maggiore e assoluto sono relative a tutto ciò che c'è intorno. Quindi Titanic poteva benissimo essere scritto e messo in scena senza quella scena a tavola? Certo. Non era essenziale.
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Lei parla della commedia come di una forma d'arte "arrabbiata". È perché è più difficile mandare un messaggio forte in una commedia senza mai rinunciare a quelle stramaledette risate?
Messaggio è un altro termine che non uso. C'è il significato. Ma messaggio è un termine peggiorativo, ha una connotazione antipatica perché suona paternalistico. Mentre sia i film drammatici che le commedie hanno un significato. Spesso quello di una commedia è prendere di mira il lavoro, il sistema militare, la chiesa o l'amore, e ovviamente provocare delle risate mentre si mostra (senza dirlo espressamente) che certi comportamenti sono ridicoli.
L'altra notte mi è capitato di vedere Tootsie sul satellite. Quella è una presa in giro degli uomini che si prendono sul serio? Cos'è l'oggetto della dissacrazione? Il machismo?
Non tanto il machismo quanto il perfezionismo. La caratteristica del personaggio di Dustin Hoffman è ovviamente il suo essere un attore e un uomo che si prende sul serio, cose che lo rendono insopportabile per chi lo circonda. [..] Nessuno in quella storia si comportava da macho. Ma lui era un perfezionista ossessivo e di conseguenza intollerante con gli altri.
Mentre Tutti pazzi per Mary se la prende con gli stalkers
Oh si. Prende in giro un altro tipo di ossessione maschile. In questo caso quella di perseguitare le donne.
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Tornando alla commedia, non suggerisce la creazione di personaggi molto articolati, che si evolvono?
Se inizi a costruire personaggi con dei grandi dissidi interiori l'attenzione della gente verrà spostata sulla persona e i suoi conflitti, cosa che ucciderà le risate. Ci può essere un arco caratteriale. Ma c'è anche una bella confusione sull'ampiezza di questo arco. Nel 90 per cento delle storie – tanto le commedie quanto i film drammatici – i personaggi non cambiano realmente. Sono le circostanze a cambiare. […] In questo processo i personaggi si rivelano per quella che è la loro personalità senza cambiare in senso morale. C'è in effetti un piccolo numero di generi – le storie a sfondo educativo, quelle di disillusione o incentrate sul cambiamento, le storie di punizione, maturazione o formazione – in cui la natura morale subisce una vera modifica, in meglio o in peggio. Pochi. Quei pochi sono stupendi. Ma non è che una manciata di generi. Che potrebbe comprendere la commedia. Prendi Big ad esempio. È una storia di maturazione. Lui cresce. Cambia, non in termini morali, ma di maturità. E fa ridere istericamente.
Nessun commento finale per gli scrittori agli esordi? Una riflessione sul mercato?
Del mercato non discuto mai…e nemmeno ci penso, perché paralizza la gente e spesso la spinge a scrivere malissimo nel tentativo di imitare altre persone o quello che "si vende". Dimenticando di dedicarsi a un lavoro ben fatto. […]
Articolo di Lewis Ward, traduzione di Marina Nasi
LINK
Il sito di McKee
http://www.mckeestory.com/outline.html
Scr(i)pt nasce nel 1989 e appartiene a quella vasta rosa di mensili specializzati che l'editoria Usa dedica a chi lavora nel cinema. Tra le varie riviste di sceneggiatura (prima tra tutte l'"ufficiale" Written By, pubblicata dalla Writers Guild of America), questa ha un aspetto più didascalico e concentrato sul "come fare a…". Quindi molti consigli pratici, che oltre a indicazioni stilistiche e scolastiche suggeriscono come muoversi con pragmatismo nel magico mondo del networking. Sottile nel formato ed essenziale nella grafica, Scr(i)pt non disdegna il cinema commerciale: ecco quindi copertine su Chicago e Seabisquit. In questo senso è un prodotto molto americano: lontano da ogni ambizione di nicchia e privo della seriosità delle (pochissime) pubblicazioni italiane dedicate agli addetti ai lavori, questo mensile sembra un dichiarato manuale su come entrare nella "macchina dei sogni". Interessante la scelta di usare come intervistatori dei professionisti, creando un dialogo costruttivo con l'intervistato. Spesso questi pezzi sono disponibili on line, come i dettagli e gli indirizzi e-mail di chi li ha scritti. (m.n.)