LETTE E…RIVISTE – Prepararsi al presente: Intervista a Hou Hsiao-Hsien

Lo stile visionario e l'odio per i documentari, la presunta influenza di Ozu e il “rivale” Wong Kar-wai, la rappresentazione della storia di Taiwan e la paura di non cogliere il presente: Hou Hsiao-Hsien, il regista di "Millenium Mambo", si racconta in una lunga intervista alla rivista americana “Cineaste”.

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Cineaste: Ci può dire qualcosa di come il suo stile registico è cambiato rispetto ai primi anni Ottanta, quando ha girato i suoi primi film?

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Hou Hsiao-hsien: Quando ero più giovane ed ho iniziato a fare il regista, gran parte del mio lavoro era basato sull'accumulo di esperienze personali. Una volta che inizi ad avere questo accumulo di esperienze, ottieni la capacità di cominciare a capire gli altri, cosa che ti permette di allargare la tua visione. E che ti permette a sua volta di avvicinarti a dei temi storici. Ma, dopo un decennio in cui ho fatto film, mi sono reso conto che a certe cose ci si abitua, e inizi ad abbandonarti a delle consuetudini. Recentemente l'intervallo tra un film e l'altro si è fatto più lungo. A causa della mia età penso più a lungo. Quando ero giovane, tendevo ad essere in bilico tra l'intuizione e una sorta di consapevolezza autoriflessiva, ed era una formula potente. Per la verità, ho l'impressione che quando si invecchia si dovrebbe smettere di fare film. Uno potrebbe benissimo scrivere una tesi piuttosto. […]


Cin: Cosa indicherebbe come fonte ispiratrice di Millenium Mambo?


Hou: Si potrebbe dire che la scelta del tema principale di Millennium Mambo sia legata al mio cambiamento nel dirigere film. Avendo finito di filmare la storia recente di Taiwan, ora mi voglio concentrare sul suo presente. Quando ho girato Good Men, Good Women, con la sua sezione moderna che si svolgeva nel presente, mi sono reso conto delle difficoltà che ho nel catturare su pellicola la vita nella Taiwan di oggi. Credo di avere iniziato a farlo solo in Millenuim Mambo.


Cin: Ha parlato di Millenium Mambo come del primo film di una trilogia. È ancora così? Tre lavori che si dipanano in dieci anni?


Hou: Beh, ci siamo un po' allontanati [dal progetto originario]. Non sarà una trilogia. […] Non sono sicuro di quanti film ci saranno a causa di tutti i cambiamenti nella società. Le vite dei giovani che io filmo cambiano molto in fretta e davvero non c'è abbastanza tempo per immagazzinare tutti questi cambiamenti. […]


Cin: Inizialmente aveva in mente un film piuttosto diverso con cui dare inizio alla trilogia.


Hou: Volevo cominciare con un progetto i cui protagonisti fossero Maggie Cheung e Tony Leung Chiu-wai […]. Ma poi Maggie e Tony sono stati coinvolti nell'infinito In The Mood For Love di Wong Kar-Wai […]Quando ho visto che la cosa non si poteva fare ho rivolto a mia attenzione al personaggio di Vicky, personaggio che si è rivelato interessantissimo impersonato da Shu Qui, che è ovviamente una bellissima attrice. […] Si, ha una sorta di aura, il che mi piace. E' estremamente intelligente e lavora molto in fretta e con intensità. […] A parte Shu Qi, la maggior parte dei personaggi del film recitano loro stessi, perché le storie sono basate sulla loro vita reale.


Cin: E che cosa cerca da tutte queste persone che recitano la loro vita davanti alla telecamera?


Hou: Mentre filmo le vite di questi giovani, loro sono in fase di sviluppo, e io cerco di osservare in che modo le loro emozioni cambiano. Questi film riguardano l'osservazione e l'afferrare il cambiamento in queste giovani persone. Non so quanti ne girerò. So che farò un film in settembre ma non so se uno solo sarà abbastanza lungo. Ho deciso di continuare a filmare in super 16 e mi auguro di poter trasferire tutte queste storie su pellicola prima che gli attori cambino. […]


Cin: In un certo senso lei costruisce una specie di situazione documentaristica su cui lavorare, e poi la telecamera decide di avere una vita propria esattamente come i personaggi che filma. Abbiamo già visto accenni di questo in Good Men, Good Women, ma adesso accade che la telecamera possa diventare, a volte, del tutto delirante.


Hou: C'è un certo aspetto documentaristico in tutto ciò, questo è sicuro, ma queste due persone, Chun-hao e Shu Qui, non stanno ri-recitando le loro vite bensì creando qualcosa di nuovo. Quindi io lavoro contro l'idea di documentario. […]


Cin: Il suo successo maggiore in patria è stato Città Dolente?


Hou: Assolutamente si. Abbiamo venduto due milioni di biglietti. Ho vinto un premio al Festival di Venezia, ed era la prima volta che un film di Taiwan otteneva un riconoscimento del genere.


Cin: Ma non necessariamente questo avrebbe sostenuto la sua sopravvivenza commerciale a Taiwan.


Hou: A quel tempo si. Eravamo nel 1989 e questo ha comportato una certa quantità di orgoglio nazionale. Ecco un film taiwanese venire per la prima volta riconosciuto a livello internazionale. […] Inoltre l'argomento di Città Dolente era molto controverso a quel tempo. Era il primo tentativo pubblico di affrontare il tema dell'incidente 2-28. Questo è qualcosa su cui il governo aveva voluto investigare e ovviamente è stato detto che il modo in cui io lo rappresento nel film è falso, perché ho deciso di omettere alcune cose. Non è un documentario. Stavo cercando di affrontare il passato taiwanese e il modo in cui percepiamo Taiwan come un posto separato, con un'identità separata dalla Cina. In molti volevano vedere questo film per queste ragioni. Per il fatto che poteva apparire un passo in avanti nel confrontarsi con questo passato doloroso. […]


Cin: A differenza dei suoi altri film, I Fiori di Shanghai è basato su un romanzo. Ci presenta un argomento che non riguarda Taiwan, è completamente, addirittura claustrofobicamente, un lavoro realizzato all'interno di uno studio, e sembra quasi essere volontariamente artefatto. E il fatto che il film sia composto di sole 30 sequenze contribuisce a questo effetto affascinante.


Hou: […] Qui c'è un elemento molto importante. In Cina, le relazioni tra la gente sono tradizionalmente complicate e molto politiche. Ti è concesso di mostrare i tuoi sentimenti, ma solo in maniera molto sottile e indiretta. È questo che mi è piaciuto [della storia], perché è un elemento che collego a quando io stavo crescendo e leggevo romanzi classici. L'essere indiretto è sempre stato il principale mezzo espressivo.


[…] Cin: Durante la lavorazione di Millennium Mambo l'anno scorso, lei ha fatto cenno a un collegamento tra il film in preparazione e I Fiori di Shanghai. Potremmo forse stabilire una relazione tra il personaggio interpretato da Shu Qi e la vita delle cortigiane?


Hou: Le donne de I Fiori di Shanghai in realtà sono piuttosto moderne. A differenza delle donne della tradizione taiwanese, le cortigiane avevano un certo margine entro cui decidere quali clienti volevano tenere e chi lasciare andare. E in un certo senso potevano mostrare più iniziativa. Avevano più libertà della media delle donne nella Cina tradizionale. In questa maniera, queste cortigiane hanno aperto la strada all'emancipazione femminile. Vicky, il personaggio di Shu Qi, è simile a loro in un certo senso, poiché lavora in un bar, come hostess, e a modo suo è in grado di prendere l'iniziativa. Ma non lo fa, perché è intrappolata in questa relazione con il suo ragazzo.


Cin: Benché i due film siano simili, il problema di descrivere la vita contemporanea sembra decisamente al centro delle sue preoccupazioni in Millenium Mambo.


Hou: La difficoltà maggiore è trovare l'angolatura da cui parlare o filmare la vita contemporanea. Non voglio uscire e limitarmi a puntare la telecamera su cosa vedo. Mi è stato chiesto come mai, poiché sono così interessato alla Taiwan di oggi, non ho fatto un documentario […] Semplicemente, ho detto che non mi piace fare documentari perché ho l'impressione che li possano fare in tanti, e perché non ne amo particolarmente lo stile. In un documentario sarebbe difficile stabilire questa angolatura – cioè esattamente ciò a cui mi riferivo prima. [Invece] ho l'impressione di potere fare un film [prendendolo] da un certo angolo, ed è per questo che ho usato lo stratagemma di impostare la storia dieci anni in avanti, per poi raccontarla in flashback come fosse avvenuta dieci anni fa. Voglio ritornarci sopra tra dieci anni e rimontare tutti i film che ho fatto in questo periodo. Così, se avrò fatto 6, 7 o 8 film, o addirittura 10, quando saranno finiti, mettiamo nel 2001, voglio tornare indietro e rimontarli. […]


Cin: Insomma un unico film continuo – non più dei film separati tra loro.


Hou: Esatto.


[…]


Cin. È difficile non chiedersi quali siano le sue impressioni su Wong Kar-Wai e In The Mood For Love, dal momento che questo regista inizia ad apparire un po' come il suo principale polo di riferimento opposto e complementare.


Hou: Mi piace Happy Together – almeno la prima parte. Il montaggio ha qualcosa di speciale, così come la recitazione, e pur svolgendosi in Argentina veicola molti messaggi specifici della mentalità di Hong Kong e della Cina. In The Mood For Love è un bellissimo film, ma non ho molto da dire in proposito.


Cin: Ma tornando alle sue difficoltà nel catturare la vita contemporanea, come crede che Wong Kar-wai abbia risolto questo problema, ammesso che lo si possa chiamare tale?


Hou: Lui ha la capacità di catturare la vita del presente. Non credo sia un problema per lui. È un problema per me.


Cin: Marco Muller ha detto che le avevano parlato di Ozu, ma che lei non aveva visto nessuno dei suoi film finché non ha girato A Time To Live And A Time To Die. Sostiene di averglieli raccomandati.


Hou: È vero, non ho visto Ozu se non molto più avanti. Ozu usava questi trucchi della distanza, e quello che si potrebbe definire campo lunghissimo, perché il suo stile era talmente essenziale. Nel mio caso, in A Time To Live and A Time to Die ho usato questi campi lunghissimi perché non usavo attori professionisti. Se ti avvicinavi troppo con la camera, si sarebbero viste tutte le cose tremende che facevano.[…]. A proposito della posizione della telecamera e della struttura delle case si è parlato di Ozu e di me, ed è buffo. Ma occorre ricordare che durante il tempo [in cui si svolge la storia] chi viveva nelle campane taiwanesi abitava in case in stile giapponese. Che cosa ci posso fare? Hanno detto che imitavo Ozu, ma il fatto è che le case di Taiwan avevano proprio quell'aspetto. Inoltre, la mia telecamera non viene mai sistemata in basso come nei film di Ozu.


Cin: Se può consolarla, le sue inquadrature non mi hanno mai ricordato Ozu.


Hou: Grazie. Ma la gente dice che io imito Ozu. Rispetto Ozu ma non mi identifico con lui. Facciamo cose davvero diverse.



 


 


Intervista di Lee Ellickson. Da "Cineaste", volume XXVII, numero 4


Traduzione a cura di Marina Nasi

 


Cineaste si autodefinisce "la principale rivista americana sull'arte e le politiche del cinema". Nata nel 1967, esce regolarmente ogni quattro mesi. L'impatto visivo è semplice e stilizzato. A una copertina a colori ma sempre sobria si affianca un'impaginazione del tutto priva di fronzoli e un uso continuo del bianco e nero. È sicuramente una rivista impegnata, che scruta criticamente anche i film più commerciali sotto un'angolatura ideologica e molto sensibile alle tematiche razziali. Da questo possono scaturire anche articoli originali in cui con serietà sociologica si ricostruisce il tema sociale dominante: ad esempio come il maschio bianco americano è rappresentato e codificato nelle teen-comedies (Primavera 2002), genere apparentemente poco compatibile con una rivista dall'apparenza così seriosa. I temi di Cineaste sono vari e approfonditi, e di rado ci si pongono problemi di lunghezza. A volte la rivista ospita articoli di eminenti professori universitari, ma rimane comunque indipendente dalle istituzioni accademiche e, ovviamente, dall'industria. Oltre all'attenzione verso i temi sociali e l'indagine ideologica del cinema, Cineaste cerca di non limitare il proprio campo di indagine al Nord America, prestando attenzione al cinema di tutto il modo, dal "primo" al "terzo". Vista la cadenza quadrimestrale e la vocazione riflessiva della rivista, è difficile che le recensioni siano complete o aggiornate: meglio rivolgersi a Cineaste per le lunghe interviste a personaggi significativi (nell'ultimo numero compaiono fianco a fianco Suso Cecchi d'Amico e Hou Hsiao Hsien) o per l'impegno nello scavare sotto le diverse angolature della settima arte. Purtroppo il sito è molto al di sotto della rivista: male aggiornato (forse addirittura abbandonato), con una quasi totale scarsità di foto e una povertà di immagine deprimente, è tutto fuori che il compendio adatto alle alte ambizioni dell'originale cartaceo.

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