LETTE E…RIVISTE – Un cinema di solitudine collettiva

Un viaggio con FILM COMMENT lungo il cinema della "via della seta"(Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tadjikistan), in una cultura impregnata di influssi mediorientali, passato sovietico e nuovo capitalismo. Un percorso in una produzione tanto ricca quanto ignorata da un Occidente avido di nuovi orizzonti cinematografici ed "esotici"

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 Non mi sono mai sentito in colpa nel perdermi l'eccitazione di "scoprire" un cinema nuovo, ancora-mai-toccato-dallo-sguardo-occidentale, principalmente perché il rischio di retorica inflazionalistica e ultraspecializzazione è piuttosto alto. Ma non è questo il caso dell'Asia Centrale. C'è uno splendido cameratismo tra i registi e i loro vari sostenitori, e il livello di lotta per il territorio non è niente paragonato alle ostilità e ai rancori titanici di questa sponda del Pacifico. Il che solleva la questione seguente: come è possibile che questi film grandiosi, sparsi grossomodo tra 40 anni e 5 paesi, con esplosioni di attività emerse in particolari intervalli, non abbiano mai solleticato la mentalità conquistatrice che si è impossessata di noi occidentali una volta data la prima occhiata alla produzione di Hong-Kong, Taiwan e Iran? Forse è perché i grandi film del Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan, e Tadjikistan sono fatti da dei tipi solitari, più modesti di un Hou o un Kiarostami. Chiariamo: non sono i film ad essere modesti, ma piuttosto le sensibilità che li forgiano. Questa modestia sembra aleggiare nell'aria respirata da un Okeev, un Omirbaev o un Narliev, o addirittura da un maestro di stile estroverso come Ali Khamraev.[…] Potremmo chiamarlo un cinema di solitudine collettiva. […] Lo scorso gennaio, mi sono ritrovato in Asia Centrale con un collega, il programmatore di film russo Alla Verlotski. Ci siamo andati per vedere film e incontrare registi, preparandoci per una retrospettiva di lavori da quella regione.[…] "Sei stato molto coraggioso a venire qui", mi ha detto Yusuf Razikof, nostro ospite in Uzbekistan e direttore degli Uzbek Film Studios, oltre ad essere lui stesso un regista sardonico e tagliente. Non condividevo la sua opinione, ma poiché parte dell'immagine che l'America ha di sé stessa è che tutti debbano venire da noi, è facile da comprendere.

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[…] Più vedevo, più ero toccato da questi registi impegnati a definire un senso di identità culturale senza una punta di nazionalismo, in questo strano bivio tra il passato comunista e il presente del libero mercato, tra l'Asia e il Medio Oriente, tra una società dominata dalla fede (musulmana, in questo caso) ed una secolare. […]

 Le molteplici differenze e i tanti parallelismi tra film, registi e regioni sono affascinanti, istruttivi. Il Kazakhstan, che vanta un'estensione territoriale più grande dell'Europa, è il più giovane tra i cinque paesi, un edificio nazionale di poco più di 100 anni. Continuavo a sentir dire che questo era un paese di solitari senza un senso della storia, disperata diagnosi   presentata in termini ottimistici. […] Questa mistica del solitario spiega la singolare devozione che i registi del Kazakhistan hanno per la trasposizione cinematografica delle strutture di inquietudine e animia.  The last stop (89), di Serik Aprimov, un caposaldo della nouvelle vague Kazakha, mette sotto la lente d'ingrandimento attività e stati d'animo per cui molti cineasti non si disturbano: che significa stare seduti tra gli amici e ammazzare il tempo al sabato pomeriggio, la sensazione di essere fuori alla fine di un giorno fatto di nulla, proprio verso l'ora del tramonto (fotografato con paziente esattezza da Murat Nugmanov, un eroe segreto del cinema del Kazakhistan), il lento costruirsi della violenza in una città dove c'è troppo alcol e non abbastanza cose da fare. Amir Karakulov copre un territorio simile, ma più da lontano, in Last Holiday (97), su un gruppo di delinquenti all'interno di una spirale discendente durante le vacanze del maggio 1979. Laddove Last stop ha un'immediatezza cruda, declinata al presente, il terso capolavoro di Karakulov ha un'eleganza triste, è la tragedia di adolescenti perduti osservata con calma da lontano. Anche Omirbaev si occupa di anomia, ma afferrandola dall'interno, usando il linguaggio cinematografico più preciso dopo Hitchcock e Bresson (due nomi che sono emersi durante le nostre conversazioni), per illuminare il paesaggio mentale dei suoi eroi inquieti. Il giovane uomo della steppa in Kairat (92), il padre di famiglia costretto a commettere un omicidio per pagare un debito in Killer (98), il regista insoddisfatto (interpretato dal regista Tadjik  Djamshed Usmonov) di The Road, del 2001, sono tutti in silenzio davanti alla vita, atterriti dalla sua complessità. Non so se esista un altro regista capace di catturare quello strano senso di dislocazione che si insinua quando il mondo interiore incontra quello esteriore. Al contrario, Ermek Shinarbaev, che si impone tra i più grandi cantastorie cinematografici, prende i più sottili fili psicologici e li percorre fino alle loro logorate estremità. Una volta arrivati al finale di My life on the Tricorn (92), a proposito di un ragazzo profondamente insoddisfatto che rinnega sé stesso, o il sorprendente Revenge (87), nel quale l'impulso di compiere vendetta per l'assassinio di un bambino è seguito nel corso di due generazioni e tre paesi, ci si sente come se vaste lande di territorio fossero state coperte e un'enorme fetta di esperienza fosse stata contenuta in un solo film. Anche The fall of Otrar di Armikulov, film epico in lavorazione da quattro anni, artigianale, virato sui toni del seppia, un affresco storico che narra di un delirio medievale in cui il Gran Khan disintegra un'intera civiltà alla stessa maniera in cui il CEO potrebbe ridimensionare una società, è tutto girato con questo strano senso di malinconia, causato dalla consapevolezza che un intero modo di vivere è sul punto di sparire, per venire rimpiazzato da qualcosa di monumentale, ignoto, misterioso.


Si possono ritrovare delle varianti di questa inquietudine nei film del Tadjikistan e dell'Uzbekistan, paesi con una storia più lunga e una cultura più mediorientale. In The flight of the bee (98) e nel più recente Angel on the right (02), entrambi di Usmonov, antiche tradizioni si scontrano con il mondo senza leggi del nuovo capitalismo. I film di Usmonov descrivono una realtà desolata con bonaria chiarezza. Sono una forma genuina d'arte popolare senza essere folcloristici: storie "di paese" artigianali e aneddotiche con un risvolto mordace, come The time of Yellow Grass (91) di Mairam Yusupova, che narra i turbamenti di un piccolo villaggio di montagna alle prese con la misteriosa apparizione di un cadavere (quello di un infedele!) nel deserto. Come il lirico Brother (91) di Bachtiyar Hudoynazarov, film di viaggio su un treno che attraversa un Tadjikistan moderno e distrutto, il film-poesia di Yusupova è più basato sui paesaggi dei film di Usmunov. Yellow grass è innestato nella comunità e nei suoi sentieri tanto quanto Where is the friend's house? di Kiarostami, ma la presenza di quel corpo aggiunge al film delle affascinanti sfumature. Sconvolge l'ordine di un vecchio modo di vivere, e colora l'azione di uno strano e minaccioso presagio.


Il cinema Uzbeko è impregnato di una simile tensione – storia culturale vs passato sovietico vs possibile occidentalizzazione del futuro. Di tutte le città che abbiamo visitato, Tashkent è la più simile a una metropoli occidentale, ma una metropoli occidentale in cui l'inflazione è tale che la gente se ne deve andare in giro con mucchi di contante e le piazze del mercato ricordano il diciannovesimo secolo più che il ventunesimo. Zoulfikar Musakov è il grande popolarizzatore del cinema Uzbeko, e a quanto pare il suo Boys in the sky (02) fa da mesi il pienone in uno dei pochi cinema con posti in piedi del Tashkent. Bizzarra e variante di Amarcord (con tanto di ragazzi che gettano un primo sguardo proibito al porno), affascinante a intermittenza, Boys contiene un sottotono inaspettatamente triste, una sensazione innominabile di crescere in un presente incerto e indefinito. È la bellezza di questi ragazzi e ragazze che dà al film il suo fascino – la loro freschezza è come un eco circa 40 anni dopo la realizzazione del classico della Nouvelle Vague Uzbeka, Tenderness (67) di Elyer Ishmukhamedov. La sorgente di questa tristezza è resa esplicita nell'allegorico The mystery of ferns (92) di Rashid Malikov. Lo spettro di Tarkovsky non aleggia esattamente sopra il cinema dell'Asia post-sovietica, ma quando è lì, c'è davvero (come nell'insolente omaggio a Stalker che Musakov fa nella sua satira di "fantascienza" Dedicated to Steven Spielberg). Nel film di Malikov, un vecchio professore perde la memoria e si mette a vagare attraverso una serie di paesaggi sempre più frammentati. Il regista parte dal movimento essenziale di Tarkovsky, le lunghe riprese che riprendono dall'alto osservando attentamente degli oggetti sparsi, ottenendo ottimi risultati: la consapevolezza individuale in deterioramento è collegata a una consapevolezza culturale altrettanto deteriorata in maniera potentemente viscerale.

Se esiste un gigante che si pone a cavallo della storia del cinema Usbeko, questo è Ali Khamraev, uno di quei rari talenti come Welles, Godard o Scorsese, il cui amore per il mezzo è così intenso che i suoi migliori film scoppiano di energia e acume che si intersecano, come un'esibizione di fuochi d'artificio. A parte il suo ultimo film, apertamente morbido, Bo Ba Bu (98), Khamraev è una figura torreggiante, un mago dei paesaggi (che sembrano tutti saturati, spesso incantati), e un genio istintivo con gli attori. Chiunque sia interessato all'idea Brechtiana del "gestus sociale" dovrebbe studiare il feroce capolavoro di Khamraev del 1972, Without fear, che parla della modernizzazione sovietica di un villaggio musulmano nel 1927 e delle ondate di shock causate dalla vista di donne senza il velo. L'abilità di Khamraev isola soltanto i gesti più opportuni, fondendo il fisico, il visuale e il drammatico con precisione perfetta. È impossibile non vedere il divertente e caustico Orator (00) di Yusup Razikov come un correttivo della favola sull'era sovietica di Khamraev: nel film di Razikov, un gentile uomo musulmano che vuole soltanto rimanere in pace con le sue adoranti tre mogli riceve il sigillo di approvazione sovietica in virtù della sua abilità di improvvisare l'oratoria politica. Nel frattempo, le sue mogli e il pacifico mondo intorno a lui sono "modernizzati" sistematicamente e senza criterio. Sia Khamraev che Razikov lavorano partendo da idee centrali alla cultura Uzbeka: i modelli di tessuti vibranti che si vedono attraverso il paese vanno a braccetto con le composizioni ornate di Razikov e con le forme visuali vorticose, quasi astratte di Men follow birds di Khamraev, la coinvolgente storia dei progressi di un giovane ladro nell'Uzbekistan medievale. Nel cinema di Kirghiz, o in quello di un regista turco come Khodjakuli Narliev, le antiche forme culturali sono incorporate nella struttura e nel tono del lavoro stesso. Aktan Abdikalikov viene ricordato per avere detto che le immagini e i movimenti ritmici del suo The adopted son (98), uno dei pochi film dell'area che si è guadagnato un pubblico internazionale (e anche l'unico attualmente in distribuzione in America), sono basati su modelli dell'arte Kirghiz (lo stesso tipo di orgoglio e attenzione per la forma si possono vedere in Selkinchek, il suo film quasi privo di dialoghi del 1993, che forse superiore anche a Son, e nei film di Marat Sarulu).[…]


Perché disturbarsi per l'ennesimo giro di film dall'ennesimo angolo del mondo? Davvero, perché. […] Primo, perché ci dicono che non ce n'è bisogno, poiché i migliori film li facciamo qui. Esaminate questa logica e trasferirtela nella politica globale – porta dritta dritta alle Freedom Fries, alla sciarada di Colin Powell alle Nazioni Unite, e all'arroganza instupidente che ci ha portato in Iraq. Si somma tutto al tipo di lista dei beni che possono essere venduti solo ad un popolo che non rinuncia a credere al mito della propria superiorità morale e culturale. Secondo, questi film parlano dall'angolo del mondo che adesso temiamo di più, il che spiega perché è necessario che li guardiamo. Terzo, sono qui a testimoniare che ci sono cose in questi film che mi tolgono il fiato, e che mi ricordano perché mi sono innamorato del cinema.


 


Articolo di Kent Jones, traduzione di Marina Nasi.


 

 

Film Comment Magazine è la pubblicazione ufficiale della Film Society del Lincoln Center di New York. Ma tra i suoi sponsor ci sono anche il New York State Council on the Arts e il National Endowment for the Arts. Pubblicata bimestralmente, questa rivista si distingue per il taglio intelligente e competente dei suoi articoli, e per una grafica semplice ma curata ed efficace. Né frivolo né serioso, tanto lontano dalla seduzione dei blockbuster quanto dalla polverosità di alcune pubblicazioni accademiche, Film Comment trova il suo punto di forza proprio nel mantenere un equilibrio tra le scelte di qualità e la scelta di non chiudersi necessariamente in una nicchia. Equilibrio che si rispecchia nel bilanciare estetica e contenuti e nell'occuparsi tanto dei film più recensiti quanto di quelli "minori" e della filmografia internazionale (molto interessante, a questo proposito, un reportage sul praticamente sconosciuto cinema tailandese, apparso nel numero di Novembre/Dicembre). Le copertine sono sempre curate e sfavillanti, anche se, così pare, non sempre puntuali, e forse qualche pagina in più non guasterebbe, trattandosi di un bimestrale. Ma nel complesso si tratta di una pubblicazione di rilievo, piacevole da sfogliare e efficace nei contenuti. Sul sito è possibile sfogliare i vecchi numeri e partecipare al forum di cinema.

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