Lettera a Franco, di Alejandro Amenábar

Amenábar prosegue la normalizzazione del suo cinema, cadendo però vittima della stessa aridità che ha fiaccato il suo protagonista, lo scrittore Miguel de Unamuno

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Quando il settantenne Miguel de Unamuno, protagonista di Lettera a Franco, acconsente a fermarsi sull’arida strada di campagna che stanno percorrendo, Salvador è esausto. La méta, che dista ancora 64 impossibili km di cammino, è il primo caffè nel quale Unamuno crede possa esserci un numero troppo elevato di fascisti. Qualche giorno prima, un gruppo di questi lo aveva fermato sull’uscio di quello di Salamanca per chiedergli un autografo. D’altronde è considerato il più grande scrittore spagnolo, è anche un eroe nazionale per la fiera opposizione alla dittatura di Primo de Rivera, dal quale era stato anche esiliato e poi graziato. Un perdono che Unamuno rispedì al mittente, auto-esiliandosi in Francia fino al 1930. Ma quei tempi sono ormai lontani, e ora discute sotto il sole abbagliante con Salvador, quest’ultimo seduto sull’enorme libro che fino a poco tempo prima stringeva in mano.

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Un gesto, quello di appoggiarsi sulle idee, frequentemente compiuto da Unamuno durante la sua vita. Peccato che le idee sono molto spesso più fluide di un pesante libro rilegato. Nell’immaginazione, nell’ideale Unamuno ci si è tuffato tutta la vita, creando addirittura un genere letterario chiamato nivola, nella quale non è lo scrittore a scrivere il personaggio, ma quest’ultimo che si impone sullo scrittore. Stavolta, però si è fatto trascinare in un vortice pericoloso, sostenendo pubblicamente i golpisti, che in quei giorni si lanciano in suppliche verso Francisco Franco di assumere il potere. Lo stesso Unamuno, con l’inasprirsi delle brutalità franchiste, però comincia a pensare che la sua visione drammaticamente non coincida con la realtà.

Il Miguel de Unamuno di Lettera a Franco, film del 2019 di Alejandro Amenábar, è un don Chisciotte che ha perso il potere di farsi ipnotizzare dalle sue idee. Non gli rimane che cercare ostinatamente di convincere sé stesso che l’inaridimento di cui è reduce non sia mai avvenuto. Un atteggiamento che sembra coincidere con quello della regia di Amenábar, che prosegue così il suo percorso di normalizzazione del suo cinema che lo ha portato ben lontano dagli esordi di Apri gli occhi e The Others. La messa in scena teatrale si preoccupa più di illustrare in maniera quasi didattica i litigi dello scrittore con i propri cari, consegnandolo poi al patetismo nelle poche volte che incontra i gerarchi franchisti e abbassa gli occhi dalla vergogna.

La scelta di rinchiudere la guerra nel fuoricampo può risultare anche coraggiosa, ma il modo telegrafico con la quale viene evocata la rende una mera interferenza di fondo. La stessa freddezza con la quale Unamuno si aggrappa alla ragione nell’ultimo discorso pubblico in cui ammonisce i golpisti (“vincerete, ma non convincerete”) risulta un sermone inefficace di fronte al brutale “Viva la morte!” dei franchisti, un ultimo affondo di uno stocco ormai spuntato. Così, lo scrittore può ritirarsi convinto in cuor suo di aver ottenuto una tardiva redenzione e Lettera a Franco chiudersi mestamente, senza che abbia trovato quella del suo cinema.

 

Titolo originale: Mientres dure la guerra
Regia: Alejandro Amenábar
Interpreti: Karra Elejalde, Eduard Fernández, Santi Prego, Luis Bermejo, Nathalie Poza, Tito Valverde
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 107′
Origini:
Spagna-Argentina, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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