LIBRI DI CINEMA – "Dietro i nostri occhi. Un diario", di Luc Dardenne

dietro ai nostri occhi luc dardenne diario
Stralci di un diario
sofferto, appassionato come una preghiera, ma scritto con lo stesso stato di rigore che caratterizza tutto il cinema dei fratelli Dardenne: finalmente leggiamo la traduzione italiana di Au dos de nos images, quattordici anni di note a margine dell'arte, picconate che scavano nella nostra epoca, ululati alla morte di dio, richiami alla necessità, di fronte alla violenza, di una domanda etica, al posto di un'estetica sacrificale. In calce, come la parola che si fa presto immagine, le sceneggiature di tre film: Il figlio, L'enfant, Il matrimonio di Lorna. Edito da ISBN.

 

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DIETRO I NOSTRI OCCHI. Un diario
Luc Dardenne
Edizioni ISBN
Finito di stampare nel mese di settembre 2009
Pag. – 16, 50 euro
 
     
Incontro sempre più spesso gente che non c'è. Non so dove siano (forse nella loro immagine?), ma non ci sono. Strana società, questa, che produce individui che non ci sono, che non ci sono per gli altri, che non ci sono per se stessi, per i quali non c'è nessuno. Alla fine del film, Bruno ci sarà.
(p. 121)
 
I fratelli Dardenne ci sono. Sono altrove, lungo gli istanti-anni in cui hanno elaborato queste note, e sono presenti. Luc scrive, Luc e Jean-Pierre lavorano ai fianchi l'umana esperienza, si sentono “troppo giovani per morire. – Rifiutare ogni proposta di finanziamento, casting, 'supporto tecnico' che ci permetta di fare 'un grande film'”, una nota del '96. I cineasti bicefali si muovono, anche a tentoni e scosse, tra com-passione e durezza, puri istanti di felicità, resistenza e rifiuto; raccontano cosa permane ai margini di un film, mentre viene plasmato, pensando a un segreto destinatario: un individuo che non sperimenta la redenzione, bensì la conversione; uno che scopre con un singhiozzo di stupore il sentimento, quando si credeva assuefatto solo a sadici sentimentalismi. Un uomo miserabile, che si rifiuta di essere rappresentato come vittima, casomai si dibatte nella necessità di un omicidio possibile: di sé, dell'altro. Un atto estremo, che finisce per sembrare fuga necessaria dalle spire di chi ci ama, di chi amiamo.
Il figlio - Luc & Jean-Pierre DardenneScorrono gli anni e prendono corpo le fattezze del padre e del Figlio, di Rosetta, di Bruno, di Lorna. Da questi frammenti accecanti scopriamo la forma di una luce. Raccontano dubbi, spasmi, e difficoltà curabili: dfficoltà del filmare il corpo di una donna come Bergman, “forse la nostra impossibilità”. Frammenti, ma autoconclusivi, intorno a cui affiorano continuamente i vivi, vitali fantasmi di Lévinas e Pasolini, Michaux, Shakespeare e Dostoievskji, Rossellini e John Ford, in un flusso di coscienza che non si allontana mai dal cinema dei fratelli – dalla fantascienza del loro cinema realistico, in cui i protagonisti sono superstiti che non cercano pietà (i nostri personaggi devono imparare di nuovo a esistere andando oltre la loro volontà di sopravvivere, devono imparare di nuovo 'cosa c'è di umano nell'uomo'”, p. 55). Soprattutto quando di questa realtà ispida si ridefiniscono i contorni attraverso la cinematografica brutalità del quotidiano: gli incontri, con una donna che delira in un caffè, con i 4×4 che navigano le strade metropolitane, pavoni spaventosi di aggressività e protezione di un'alta borghesia più pericolosa di una volta perchè intrisa di povertà intellettuale, cinque brevi righe che raccontano prigionie quotidiane: un padre che mostra con orgoglio la stanza chiusa a chiave, in cui si è ritagliato per sé solo, dopo il lavoro, lo spazio dei giochi interdetto ai propri figli bambini – playstation, computer, tv.
Osservazioni concise, spesso fulminanti “A volte, la necessità di far soffrire gli altri. È così. Bisogna saperlo.” (p. 64); incredibili propositi – “Trovare la parola che dice il silenzio delle altre parole. Trovare il piano che inquadra l'invisibilità degli altri piani.” (p.77) “cercare di non congelare la vita nelle inquadrature, di lasciarla passare, traboccare. Vedremo. Soprattutto, non fare il film prima di farlo. Restare al bivio! Al bivio! Dentro!”. Una preghiera indicibile che tenta di fare a meno del costrutto, della struttura e della sovrastruttura, anche e soprattutto di quella cinematografica, per infilare le dita nel foro di proiettile dell'esistenza pura: scientificamente descritta e dolorosamente compatita, ma senza l'enfasi della passione di un martire. Luc e Jean-Pierre si scavano il volto fino a trovare gli zigomi arrossati di Rosetta, la dignità composta e mezza folle di una Lorna che si procura i lividi, l'oscurità maestosa di Olivier arrancante alla piallatrice come una protesi, come una razza umana che cerca l'affrancamento dalla macchina attraverso il macchinario complesso della sua dignità. La falegnameria complessa e semplice, il rumore di fondo della vita che basta a fare suoni: la partitura intricata dell'assenza di musica: “ – Perchè non c'è musica nei vostri film? – Per non tapparvi gli occhi.“ (p. 62)
Rpsetta - Luc & Jean-Pierre DardenneNon è un manuale di come si dice la verità – non racconta più di tanto, più di quel che già non trasuda dalla loro pellicola intossicante, salubre, di quella eutanasia sociale per cui ai margini si vive e si muore senza neppure un giudizio da parte di chi quasi per caso sopravvive in un cerchio protetto. Non osa spiegare quanto resta ai margini di un film, quante le speranze e quanti i ripensamenti di fronte a un pubblico, o a una generica committenza, che è lo stesso, che cerca come un'ostia salvifica e un alibi il messaggio edificante. Soltanto il diario di un folle a due teste, non un manuale su come si fa il cinema: perchè equivale piuttosto a chiedersi come si fa la vita, e questa si produce quasi come un caso. Di sociale non c'è nulla, se non è la vita stessa a fornire la prova del suo senso politico, terroristico, che rifiuta la trasgressione fintamente conflittuale, e cerca invece una pace nel conflitto. Così accade, qualche volta, che andare al cinema è un atto di fede (laica) per chi lo fa, per chi lo sente: “Dagli occhi alzati nasce una preghiera: liberaci dal male”.
 
Brecht ha scritto che il realismo non consisteva nel dire cose vere ma nel dire come stanno veramente le cose. Mentre le sue pièce dicevano come stanno veramente le cose, un prigioniero del gulag raccoglieva fatti, cose vere che dicevano che quelle pièce teatrali erano false. Quando dire come stanno veramente le cose richiede di dire cose false, dire cose vere diventa il modo per dire come stanno veramente le cose.
 
Il determinismo sociale ed economico è tornato ad essere la forma del destino per il quindici per cento della popolazione occidentale che si allinea alle popolazioni del sud del mondo. Forma contemporanea del tragico. Con questo si scontra Rosetta. Ci rimproverano poi di non avere humor. Come potrebbe Rosetta, che è chiusa nel suo destino, prendere le distanze da quello stesso destino?” (p. 57).
 
 INDICE
 
Dietro i nostri occhi (1991-2005)    p. 7
Opere citate    p. 135
 
Sceneggiature
Il figlio   p. 141
L'enfant   p. 205
Il matrimonio di Lorna   p. 263
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