LIBRI DI CINEMA – La tela strappata. Storie di film non fatti, di Alessio Scarlato
Il retro del cinema, il retro della storia. Un libro ripercorre le vicende di alcuni dei più famosi film incompiuti della storia del cinema: perché è doveroso testimoniarne la vita invisibile
La tela strappata. Storie di film non fatti
Alessio Scarlato
Collana: Frontiere. Oltre il Cinema (diretta da Roberto De Gaetano)
Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2016
Pagine 353
«Fare una descrizione precisa di ciò che non ha mai avuto luogo è il compito dello storico».
“La sentenza di Oscar Wilde guida questa ricostruzione del rimosso del cinema del Novecento, la storia dei grandi film non fatti, dal Don Chisciotte di Welles al Viaggio di G. Mastorna di Fellini, dal Cristo di Dreyer al Napoleone di Kubrick, dal Que viva Mexico! e Il prato di Bežin di Ėjzenštejn al The Day the Clown Cried di Lewis. E ancora, Godard, Pasolini, Munk, Vertov, Lanzmann: la storia di grandi progetti incompiuti, di riprese che si sono protratte per decenni e poi sono state dimenticate in qualche magazzino, immagini rimaste sulla carta oppure riutilizzate, ma al di fuori della loro destinazione originaria. Attraverso questo racconto, emerge il profilo di quello che il Novecento non ha saputo vedere e raccontare, il retro della Storia, nonché il profilo di una storia delle immagini del cinema che disloca la centralità della sala cinematografica per far emergere i meccanismi di negoziazione e i doveri d’autore che preludono alla visibilità o alla scomparsa di tali immagini perdute”.
Cosa fa di un film un’opera compiuta, un prodotto finito e visibile? E cosa fa di un film incompiuto o solo sceneggiato un’opera interrotta, un prodotto non finito, potremmo dire in-finito e invisibile? La risposta al primo quesito e, indirettamente anche al secondo, è piuttosto semplice: la distribuzione nelle sale cinematografiche. Molto più complesso e denso di problematicità è il percorso attraverso il quale l’idea di un film nasce, si sviluppa, viene proposta e dibattuta, cresce e vive per poi arenarsi, sgonfiarsi, morire prima di essere precipitata su pellicola: il perché, dunque, un film resta incompiuto e non arriva alla visibilità cui, pure, aspira. È solo un discorso di felice composizione tra i vari step che regolano e, talvolta, condizionano la produzione, promozione e distribuzione di un film, di un favorevole incastro tra le diverse istanze – economiche, politiche, poetiche, tecniche – che ne governano, in tempi e con modalità di volta in volta diversi, l’iter? Probabilmente, c’è di più. Ci sono urgenze espressive, narrative e compositive che urtano contro un sistema di pensiero, portatrici di un’ideologia altra in una temperie culturale dominante, in una façon de penser alla quale doversi giocoforza adattare. Ci sono tematiche, concetti e momenti della storia da testimoniare con una macchina da presa e che rivelano in fieri le loro insanabili aporie ed il loro intrinseco carattere in-finito e irriducibile. Soprattutto, c’è una volontà poietica eversiva, un’istanza problematica dotata di una tale carica destabilizzante da non lasciarsi assorbire, hit et nunc, da automatismi convenzionali e da quelle regole che periodicamente il mondo della celluloide rivede e riformula. Perché, come spiega Pietro Montani nella prefazione, “deve essere ben chiaro che il cinema in quanto tale, il cinema nella sua essenza, contiene già all’origine il movimento che lo conduce asintoticamente verso la sua stessa, costante disarticolazione. E che gli autori, o almeno alcuni grandi, si sono fatti di tempo in tempo interpreti a tal punto radicali di questa esigenza di rinnovamento da averla vissuta nella forma canonica del fallimento. Spesso del fallimento prolungato”.
Alessio Scarlato, studioso di cinema e filosofia – La Zona del Sacro. L’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, 2005; Robert Bresson. La meccanica della grazia, 2006; L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa, 2006; 20 gennaio 1942. Auschwitz e l’estetica della testimonianza, 2009; Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard, 2010 – ci guida attraverso un affascinante viaggio nella “tela strappata” del cinema, nella storia di quei film che hanno preso vita e hanno sprigionato la loro energia creativa ed il loro portato simbolico dietro lo schermo di una sala, per il semplice motivo che davanti – sullo schermo – non sono mai arrivati. Per farlo, l’autore seleziona quattro momenti storici seminali, quattro “epifanie” destinate inevitabilmente a sconvolgere, interrogare, fare problema: l’ascesa e il crollo di Napoleone Bonaparte tra gli esiti estremi della cultura illuminista e la degenerazione di una rivoluzione che mangia i suoi figli; la rivoluzione di ottobre in Russia e la progressiva definizione programmatica di un realismo socialista; l’avvento di Cristo incarnato, il problema del male, il rapporto con il giudaismo e la questione della Chiesa come istituzione e gruppo organizzato; i campi di sterminio nazisti e gli annessi dibattiti su una realtà irriducibile alla finzione, il dovere della testimonianza e della memoria e il concetto di antisemitismo, fino alla questione israeliana e arabo-palestinese. Dunque, il problema della Storia, innanzitutto. L’autore indaga il rapporto problematico tra il cinema e la storia e lo fa attraverso un efficace corredo di strumenti, angolazioni e metodi di ricerca interdisciplinari: il tecnicismo del discorso squisitamente meccanico e produttivo si coniuga con un approccio che scandaglia i problemi della fenomenologia e dell’estetica della visione; la meticolosa ricostruzione dei diversi contesti storico-culturali (quando ancora il film si poteva fare) si accompagna ed introduce all’analisi gnoseologica e all’approfondimento strutturale del processo creativo che ha coinvolto alcuni tra i maggiori registi del Novecento di fronte al racconto filmico di uno (o più, insieme) dei quattro momenti storici scelti. “Non si tratta solo di una storia dei film non fatti, ma anche – e forse soprattutto – della Storia nei film non fatti. La Storia in quanto forza motrice, principio costruttivo e contenuto documentale di quella disarticolazione del dispositivo che starebbe alla base dei film non fatti in quanto sta alla base del cinema in quanto tale, del suo essersi costituito come uno strumento e un veicolo di attestazione storiografica bisognoso di riscrivere continuamente le regole del gioco”, scrive ancora Montani.
Dal Don Chisciotte (1955-1985) di Orson Welles – selezionato come esempio paradigmatico per questo viaggio nei film non fatti – al Napoleone (1967-1969) di Stanley Kubrick, da Que viva Mexico! (1931-1932) e Il prato di Bežin (1935-1937) di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn alla idea di cine-occhio (kinoglaz, 1924) e di film collettivo di Dziga Vertov, dal Cristo (1935-1968) di Carl Theodor Dreyer al San Paolo (1966-1974) e a Porno-Teo-Kolossal (1966-1975) di Pier Paolo Pasolini, da Agôn o Agonia (1978) di Luis Buñuel a Il viaggio di G. Mastorna (1965-1992) di Federico Fellini, fino a The Day the Clown Cried (1971-1972) di Jerry Lewis e a Jusqu’à la victoire (1970) di Jean-Luc Godard e ancora, soprattutto, all’ossessione di quest’ultimo per un film da fare sugli ebrei, gli inceneriti di Auschwitz, su cui tornerà a più riprese con le Histoire(s) du cinéma (1988-1998). Facendo proprio l’indirizzo storiografico di Walter Benjamin e della sua “storia spazzolata contropelo”, Scarlato ripercorre alcuni nodi vitali della storia del cinema e della “storia che si fa cinema”, aprendo al lettore quella che è la prospettiva del cinema vivente e della sua fruizione: il film che esce dalla cerimonia istituzionale e dalla “grammatica della finzione” di una sala per farsi visione frammentata, spezzata, disseminata, intermediale, esperienza visiva smontata e rimontata, abusata e riusata (si pensi al found footage e al mash-up).
Questo passaggio di Scarlato enuclea come meglio non si potrebbe la quintessenza del libro: “L’oceano dei film non fatti non è soltanto spazio da annettere alla terra dei film visibili. Non va a ricomporre una totalità compiuta, un racconto unitario. Piuttosto invita a una contro-storia, a una storia del rimosso, del sommerso, in cui le istanze (tecniche, economiche, politiche, poetiche) non sono riuscite a trovare una negoziazione. Non è una storia cronologica, non è una catena evolutiva di correnti espressive, di tecniche, di opere che hanno manifestato il logos del proprio tempo. È una storia di immagini sommerse che, fuori dal proprio tempo, fanno emergere la miseria che spesso segna il fallimento di quel lavoro di negoziazione, o che sono sopravvissute per il proprio splendore. Per raccontare quella miseria, quello splendore, lo storico-archeologo dovrà da una parte dotarsi di uno sguardo minuzioso, dovrà prestare attenzione a quei dettagli materiali che hanno impedito la composizione delle diverse istanze produttive in un’opera da distribuire nelle sale. Al contempo, sarà necessario immaginare, anche oltre i dettagli materiali, oltre il fascino dell’aneddoto”.
Il cinema, la Storia. Il cinema che si sforza di raccontare la Storia. La questione di cosa sia un “cinema di storia, prima ancora che di storie”. E ancora, l’effettiva possibilità e realizzabilità di questo tipo di cinema. Ma soprattutto, capovolgendo la prospettiva: il retro del cinema, il retro della Storia. Perché “raccontare questo oceano sommerso ci permette di indagare il rimosso, il retro del dispositivo cinematografico, nonché dei modi con cui raccontiamo la Storia”, perché “raccontare il retro del cinema permette di indagare quello che il Novecento non ha saputo ricordare o immaginare. Ciò che è rimasto senza testimonianza e ciò che è rimasto segreto. Permette di raccontare gli stracci e i rifiuti della Storia, ciò che è rimasto a margine della visione”. Nella sua disamina, condotta con acribia ed appassionato spirito di ricerca, Scarlato è attento a selezionare le dinamiche che si instaurano tra le diverse fasi del fare cinema, enucleando la dialettica tra il soggetto Storia e l’oggetto Cinema nel momento esatto in cui il primo diventa oggetto privilegiato di osservazione ed interpretazione e il secondo assurge a soggetto riflettente e problematico. Dal Soggetto agente dei processi rivoluzionari del 1789 e del 1917 al Soggetto patiens della vittima sacrificale divina, Cristo, e della vittima messa al bando, il musulmano dei campi nazisti: un cammino fatto di entusiasmo incendiario e di aporie insanabili, di scavo nella natura più profonda del senso e di fervente dibattito culturale – filosofico, religioso, estetico – di accesa militanza intellettuale e di sconvolgenti letture eterodosse. Ciò che emerge, in ultima istanza, è un accorato, quanto perentorio, invito ad un impegno a preservare la traccia, la testimonianza di queste immagini invisibili, in-finite, perché “il problema del futuro di quelle stesse immagini, dei diritti attorno a esse, e specularmente il nodo della proprietà umana della storia, deve far spazio ancor di più alla questione della cura verso quelle immagini, e perciò alla loro memoria. Deve far spazio al dovere d’autore”. E leggere La tela strappata è un ottimo modo per avere cura di quelle immagini rimosse, per introiettarle e lasciarle agire ed esplodere in tutta la loro potenza, proprio come in un film.