LIBRI DI CINEMA – "Peter Greenaway. Film, video, installazioni", di Domenico De Gaetano
Una carrellata sull'opera completa di Peter Greenaway: la sua provocazione “il cinema è morto” ha generato in questi anni un percorso artistico e culturale che si nutre di pittura, teatro, architettura, biologia, costruendo un universo borgesiano di tutte le ossessioni e suggestioni del nostro millennio e di epoche precedenti e future. Per Lindau.
Per Lindau, che si è già occupata di Peter Greenaway pubblicando i suoi dipinti e disegni (Artworks) e un saggio dedicato a The Draughtman's contract, Domenico De Gaetano, torna ad occuparsi della riflessione sulla natura dell'immagine da parte di un autore che sperimenta da sempre, non senza raffinata autoironia, su un sogno rinascimentale di “opera totale”. De Gaetano, curatore per l'associazione torinese Volumina di progetti multimediali anche per Cronenberg, Egoyan, Nyman e impegnato nelle attività della Mediateca del Cinema della Città di Torino, segue da tempo il percorso artistico di Peter Greenaway. Questo volume parte dalla reazione tra stupore, fascinazione e sottile fastidio che coglie spesso chi si avvicina all'opera stratificata e immaginifica del regista-artista britannico, alla sua borgesiana e splendida frenesia classificatoria (gli elenchi, gli ordinamenti, i numeri e i simboli, la volontà, in fondo, di non scegliere tra oralità e scrittura, racconto e documentazione). Si inizia dal dissipare un possibile equivoco storico: che quello che viene chiamato il suo cinema neobarocco sia inteso esclusivamente come un calderone estetizzante, un colto e gelido carrozzone allegorico traboccante di segni. Dai primi cortometraggi alla recente sperimentazione multimediale, se è vero che l'opera di Greenaway rifiuta un concetto di cinema come “finestra aperta sul mondo o frammento di realtà” (p. 24) e si presenta come “processo non-narrativo che non ricerca l'illusione di realtà ma costruisce universi così altamente strutturati da rendere la finzione un artificio credibile” (p. 25) finisce per toccare una sostanza altamente drammatica, “calorosa” e realista: i temi fondanti dell'umano, l'ossessione per la conoscenza, il suo sguardo sulla vita e sulla morte, l'uomo come esploratore di universi regolati da leggi e logiche diverse, lo sberleffo dell'imprevisto, ascesi e caduta, slancio e fallimento, e proprio quel delirio organizzativo con cui cerca di dare ordine al caos: ogni opera di Greenaway si fonda su una struttura, minandola alla base nel momento in cui si configura come tale: “ogni tipo di sistema che presupponga una serie di istruzioni da imparare, regolamenti da seguire e rituali da adottare, sia esso la matematica o la religione, la scienza o il linguaggio, viene portato alle estreme conseguenze e la sua funzionalità messa in ridicolo”. (p. 35). Il mondo paradossale di Greenaway si nutre del mondo dell'arte e della tradizione estetica occidentale, riordinandola però inizialmente secondo un approccio estremamente rigoroso, minimal-strutturalista (le avanguardie americane ed europee di fine anni '60) per spostarsi solo in un secondo momento verso partiture pittoriche e sovrabbondanti. De Gaetano accosta questo percorso a quello di uno dei migliori collaboratori di Greenaway, Michael Nyman, accanto a lui per oltre 15 anni; e non a caso, perchè ambedue lavorano su una visione che si nutre delle fonti più disparate, in grado però di giocare sul suo stesso gusto enciclopedico e fondare un'opera d'arte originale: un codice in cui “il linguaggio classico e quello contemporaneo si amalgamano e si fondono a tal punto che non è più possibile parlare di citazione, recupero del passato o di semplice influenza”. (p. 24). De Gaetano ci guida attraverso gli elementi comuni e le differenze principali tra icortometraggi degli anni '60 e le sperimentazioni tra '70 e '80 realizzate con il British Film Institute – biografie immaginarie (The Falls) aneddoti scritti sullo schermo, elenchi di morti possibili o viaggi scanditi in mappe (H is for House, Dear Phone, Windows, A walk through H) – e il cinema di finzione degli anni '80 invaso dalla pittura (A Zed and Two Naughts, Giochi nell'acqua, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, I misteri del giardino di Compton House), il cinema come una tela tessuta “con la stessa profondità della materia pittorica” (p. 61). Dagli anni '90 in poi si prendono in esame “le nuove frontiere che amplificano I paradigmi del cinema di Greenaway” (p. 181): teatralità e manipolazione (L'ultima tempesta, The Baby of Mâcon, The Pillow Book, Otto donne e mezzo) mentre a partire dal 2000 sono raccontati i progetti multimediali (Le valigie di Tulse Luper, Nightwatching, Ripopolare la reggia), opere rizomatiche che sono al tempo stesso film, ipertesti, happening culturali, installazioni, materiale da teatro, esperienze sinestetiche, esposizioni (dal Boymans Museum di Rotterdam al Louvre). Completa il testo un'esaustiva bibliografia.
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L'arte di Peter Greenaway p. 13L'ipotesi strutturale, 13La finzione letteraria, 25I principi organizzativi, 34La teoria dei numeri, 43Presenza figurative, 55Il cinema della complessità controllata, 62
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I cortometraggi (gli anni '60) p. 77I primi esperimenti, 77Oltre “Windows”, 83
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Il periodo B.F.I. (1978-1980) p. 93A Walk Trough H, 95Vertical Features Remake, 101The Falls, 108
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I film degli anni '80 (1982-1989) p. 121I misteri del giardino di Compton House, 126Lo zoo di Venere, 136Il ventre dell'architetto, 148Giochi nell'acqua, 156Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante, 165
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I film degli anni '90 (1991-1999) p. 181L'ultima tempesta, 182The baby of Macon, 194I racconti del cuscino, 205Otto donne e mezzo, 216
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I film multimediali (dal 2000 a oggi) p. 229Le valigie di Tulse Luper, 230Nightwatching, 246Ripopolare la reggia, 254