LIBRI – Walter Hill

Ci fa piacere di far partire la nuova rubrica libri raccontandovi di un libro scritto a quattro mani da due nostri redattori, Simone Emiliani e Mauro Gervasini, su uno dei nostri cineasti preferiti, l'autore di "The Warriors"

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TITOLO Walter Hill
AUTORE Simone Emiliani, Mauro Gervasini
EDITORE Falsopiano
ANNO 2001
PAGINE 176
PREZZO L.29.000 (euro 15.00)
INFO fforfake@tin.it
WEB www.falsopiano.com
DI COSA PARLA

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Primo volume uscito in Italia che ripercorre la carriera cinematografica di Walter Hill, grande frequentatore sia dei generi classici che sperimentatore di nuovi linguaggi. Sceneggiatore, produttore e regista, Hill da oltre trent'anni insegue il miraggio della contaminazione, grazie a film che hanno scritto pagine memorabili del cinema americano come I guerrieri della notte, 48 ore, Geronimo.
COMMENTO CRITICO

Ovvero dell’arretratezza dell’editoria (cinematografica) italiana. Che la prima monografia su Walter Hill, uno dei più grandi (de)costruttori di immaginario degli ultimi venticinque anni, debba arrivare nel 2001 (se si esclude la “vecchia” pubblicazione di Sequenze negli anni ottanta), la dice lunga sulla grande capacità dell’editoria nostrana di stare al passo coi tempi. Va dato il merito a Falsopiano di questa coraggiosa iniziativa, ma questo libro andava probabilmente editato non meno di dieci anni fa (e, semmai, oggi, rieditato). Ci fa piacere comunque, far partire la nuova rubrica libri di Sentieri selvaggi raccontandovi di un libro scritto a quattro mani da due dei nostri redattori, Simone Emiliani e Mauro Gervasini (+ introduzione di Giona Nazzaro).
L’esemplare lavoro di un grande cineasta di passaggio, tra il cinema classico e quello (post)moderno, è rappresentato in questo libro secondo un percorso letteralmente filmografico, scandendo la sua carriera di director e di “autore” (perché poi alla fine è questa la nozione che viene perseguita) film per film, da “L’eroe della strada”, nella metà degli anni settanta fino all’ultimo “Supernova”, dove Hill ha tolto la firma dissociandosi dalla produzione (e vi suggeriamo di vedervi il DVD, che contiene le scene eliminate che pongono il film in un’ottica molto diversa).
C’è da dire che il libro, come potete leggere più sotto nella pagina che vi “regaliamo”, è davvero ben scritto, e le informazioni, gli aneddoti e le riflessioni critiche sul regista sono misurate e ben miscelate all’interno di ogni singola scheda, rendendo il “lavoro del lettore” piacevole e scorrevole, senza però mai cadere né nella banalità e neppure nel testo per “apologetici” addetti ai lavori (quasi mai…anche se il “mitologema partecipato” dell’introduzione, direbbe Gervasini, “grida vendetta”…).
Resta da aggiungere che il volume comprende una biografia ricca di aneddoti , un pezzo sul suo musicista preferito, Ry Cooder, e una poderosa bibliografia.
Resta solo il rammarico di immaginare un volume su un personaggio così complesso, più articolato, con una lettura un po’ più trasversale e meno storicistica e filologica del cinema di Walter Hill. Ma già è difficile per un editore pubblicare un libro del genere, figuriamoci uscire fuori dalle coordinate mentali/editoriali fissate dal “Castoro” trenta e più anni fa, che nessuno sembra ancora voler mettere in discussione…
LEGGI UN BRANO DEL LIBRO

Geronimo, an American Legend (Geronimo)

Non sembra esserci il West dentro gli spazi di Geronimo. Eppure il film è pieno di aperture sterminate, di territori vastissimi. E’ un’opera completamente aperta, tutta da percorrere. Perché Geronimo è prima di tutto Storia. Ma non la Storia che s’impara sui banchi di scuola, o quella dei tanti western televisivi che ripercorrono la memoria dalla parte degli indiani con quei colori seppia, da dagherrotipo d’epoca, in cui non passa alcuna traccia di nostalgia, alcuna traccia di sentimento. Geronimo è lì, nel suo volto immobile – sorta di iconografia creata da un autore ignoto e non si sa in quale epoca – già dai titoli di testa, immagine di un film già pietrificato, già dentro il suo passato segnato in modo indelebile dalla ballata triste delle note di Ry Cooder. Non c’è quella ferocia dello sguardo di un altro viaggio di Hill nel Mito – i fratelli James in The Long Riders – e non c’è quella partecipata nostalgia di Wiid Bill. C’è solo un estremo dolore dentro Geronimo, un dolore che si estende nel suo ritmo cadenzato e lento, nell’impermeabilità di un’immagine già composta che si rifiuta di aprirsi. Paradossalmente, il protagonista del titolo nel film di Hill non c’è. E’ assente perché il capo degli Apache è un personaggio già morto, è già leggenda (come testimonia il titolo originale, Geronimo, un American Legend), ha qualcosa di incredibilmente oscuro e mitico, come una divinità forse mai vissuta, forse mai morta. Si incrociano dentro quest’opera la visione del mondo che sembra riemergere dalle tombe di John Milius con la muscolosità (che qui sembra veramente fermata, come se non ci fossero più 24 fotogrammi al secondo) di Walter Hill. Geronimo, nella scrittura di Milius, è già un Dio, perde quella fisicità incombendo come uno spettro su tutto il film. Geronimo non è un Dio perché è Geronimo. Geronimo diventa un Dio in rapporto allo spazio in cui è immerso, un po’ come il soldato statunitense nella giungla del Borneo di Farewell to the King (Addio al re, 1988), un po’ come i tre surfisti che sembrano venire dal mare di Big Wednesdav (Un Mercoledì da leoni, 1978), un po’ come quel Marocco mitico di corpi-dei di The Wind and the Lion (Il vento e il leone, 1975).
Geronimo è soprattutto un Dio in rapporto a chi lo guarda: lo sguardo soggettivo del giovane tenente Britton Davis estremizzato nella voce fuori-campo di una Storia già trascorsa (la voce-off è, tra parentesi, un espediente molto miliusiano), una Storia da riscrivere in un film che è documentario, è ephos. è leggenda, è un western, anzi un post-western (come lo splendido Kasdan di Wyatt Earp) e al tempo stesso non è niente di tutto questo. All’uscita del film si sottolineò come Geronimo fosse un film dalla parte degli indiani, così come Dance With the Wolves (Balia coi lupi, 1990) di Kevin Costner, e venne individuata nel “rigenerato” western una nuova connotazione contenutistica. Al di là del fatto che i film dalla parte degli indiani non sono una prerogativa dell’ultimo western, ma già Broken Arrow (L’amante indiana, 1950) di Delmer Davis (che in qualche modo annunciava un atto politico decisivo, quello del 1953 in cui anche gli indiani avevano diritto alla cittadinanza statunitense) aveva già segnato in maniera netta la svolta – senza contare alcuni passaggi cruciali degli anni Settanta. Due nomi per tutti: Soldier BIue (Soldato blu 1970) di Ralph Nelson e Little Big Man (Piccolo grande uomo) di Arthur Penn – in realtà Geronimo non sembra essere dalla parte di nessuno. Perché non c’è più l’esigenza di una storia da raccontare. Perché è una storia già vissuta. Come il film di Costner, è soprattutto un “viaggio senza ritorno”, un’opera sulla crisi d’identità, un’immersione nelle tenebre dal sapore conradiano. E’ uno straordinario film senza eroi perché sono troppi i suoi eroi, troppi i punti di vista che s’incrociano, che si mettono sullo stesso binario comunicativo (i momenti in cui i nativi americani parlano nella loro lingua), che si scontrano. I corpi di Geronimo sono tutte icone della “fine di una Storia”, una storia non spettacolare, senza più nostalgia ma davvero potente nelle sue lacerazioni: da Geronimo e i suoi apaches sopravvissuti, ai tenenti Gatewood e Davis, dal generale Crook al soldato razzista Al Sieber (interpretati rispettivamente dai grandi Gene Hackman e Robert Duvall), che muore per salvare una guida apache. Il senso dell’onore del cinema di Milius si incrocia con lo scontro frontale, anzi gli scontri frontali e la ricerca del riscatto di Walter Hill.
Valutazione (da @ a @@@@@)

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