Life on Manz. Un ricordo di Linda Manz

Il 14 agosto scorso è morta Linda Manz, a soli 58 anni. Ripercorriamo le apparizioni di uno di quei corpi che al cinema si danno una volta per sempre, da Malick a Korine via Hopper e Kaufman

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Ci sono corpi al cinema che si danno una volta per sempre. Linda Manz – scomparsa il 14 agosto a soli 58 anni – mi ha sempre evocato quella flagranza, istantanea e irripetibile, dei fantasmi bressoniani, quella materializzazione di anime che solo la pellicola è in grado di generare. E che sfugge ad ogni principio di riproducibilità. Asciutta, spigolosa, una piccola “scarface” di soli 1.47 cm, l’attrice americana possedeva nel volto anche la bellezza e la banalità di un found object, a metà dunque fra una Mouchette newyorkese e una scultura di Robert Rauschenberg. Con una manciata di film tra il 1978 e il 1980, Linda Manz, scoperta, non a caso, in una lavanderia a gettoni da uno del casting di I giorni del cielo di Terrence Malick, è stata l’ultimo effimero vagito di quei rebels without a cause sfuggiti alla catena di montaggio degli studios. Nel film del regista americano, l’allora 16enne è la sorellina di Richard Gere, omicida fuggiasco verso i campi del Texas insieme alla fidanzata e alla piccola, spettatrice di un triangolo amoroso condannato alla tragedia. E sorretto dalla sua voce narrante, squisitamente fuori dal tempo, già trascendente. Linda, nome volutamente conservato anche nella finzione, non solo ripercorre la triste parentesi texana commentando eventi e sentimenti ma rompe, vocalmente, la quarta parete con innesti di se stessa che palesemente sfuggono allo scorrere del narrato. Riflessioni su Dio, Satana, ricordi scolastici di paleontologia, brandelli di infantile immaginazione, in un flusso di coscienza registrato davanti alla moviola mentre rivedeva il film.

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Un gesto che rivela uno spirito quasi anarchico che troverà la sua massima espressione due anni dopo – dopo una breve e folgorante parentesi in The Wanderers del sempre tristemente sottostimato Philip Kaufman – nel capolavoro Out of the Blue, diretto dall’eterno dropout Dennis Hopper. Cullato dalla ballad My My, Hey Hey di Neil Young – tristemente famosa per il “It’s better to burn out/Than to fade away” scritto nella lettera d’addio di Kurt Cobain – il film di Hopper forse è quanto di più bressoniano si possa immaginare in una pellicola americana. Lunghe inquadrature che travolgono gli attori, con il contrapporsi di paesaggi e di primi piani che bloccano la prospettiva, e, fuori e dentro i corpi, quasi un ciclone, un cielo grigio da perforare con lo sguardo, un’altra quarta parete da sfondare. Ed è sempre Linda a farlo, pedinata dalla mdp di Hopper, come neanche i Dardenne di Rosetta, per afferrarne l’essenza e il suo essere eterea anche quando il corpo vagabonda per le strade o viene bucato da una spilla da balia. La sua Cebe senza padri – “Mio papà mi ha lasciata, Sid Vicious mi ha lasciata e ora il Re (Elvis) mi sta abbandonando” – echeggia nella postura l’Henry Fonda di Sfida infernale e conosce solo il punk e le fiamme per sfuggire allo squallore dell’animo adulto.

In eterno movimento errabondo fra i confini di una città di provincia e di un cinema “per nessuno” che, nonostante un passaggio in Concorso a Cannes nel 1980, finirà per sfaldarsi. Come la carriera di Linda. Come poteva del resto sopravvivere all’imminente nouvelle vague di corpi americani scolpiti nella statica perfezione dell’edonismo? Paradigmatica un’immagine trovata su Google dove la si osserva – insieme a Brooke Shields – al compleanno di Matt Dillon, un po’ spaesata e con quello sguardo di chi non sa, e non vuole, appartenere al presente. Sceglierà un oblio allietato da un matrimonio e tre figli maschi per tornare, solo nel 1997, davanti alla traballante macchina da presa di Harmony Korine per Gummo, salutato come il nuovo cantico dei margini americani. Ma, a chi scrive, piace pensare che Linda avesse fiutato presto quel iper manierismo lo-fi e fosse così tornata nella sua roulotte, a 30 km da Hollywood, a vendere su Facebook memorabilia dei suoi set. In una rara intervista raccontò candidamente “Viviamo con poco ma siamo felici di quello che abbiamo”. Come noi nell’averla osservata bruciarsi sullo schermo invece di spegnersi lentamente.

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