Light of my Life, di Casey Affleck
Un disaster-movie intimista, ma anche un film sul lutto, dove il cinema di Casey Affleck regista fa muovere le figure nell’ombra come Joaquin Phoenix in I’m Still Here. Con un finale imponente.
Un disaster-movie intimista, ma anche un film sul lutto, dove il cinema di Casey Affleck fa muovere le figure nell’ombra come Joaquin Phoenix in I’m Still Here. Con un finale imponente.
“Come si può amare qualcuno che non vediamo mai?” chiede Rag al padre. Il lutto in Light of My Life diventa espanso. Non c’è elaborazione perché non c’è freno. Ma per sopravvivere è meglio dimenticare invece di ricordare. Light of My Life è un film immediato, d’impatto, sotto questo aspetto. In quei flashback velocissimi con la moglie deunta. La felicità, la morte. Dove la luce che entra dalle finestre sembra essere la stessa. Nel passato. Nella possibilità di un futuro. Squarciano quasi artificialmente l’immagine dall’ombra. Come è avvenuto recentemente in Il re di David Michôd. Entrambi i film infatti sono firmati dallo stesso direttore della fotografia, Adam Arkapaw. Ed è un’illuminazione strana. Manipolatrice in tutti e due i casi. Che squarciano il film storico nel primo caso e il disaster-movie in Light of My Life. Del resto la luce è già nel titolo. Una proiezione, un desiderio, la possibilità di andare avanti. Perché il cinema di Casey Affleck regista riesce ad agire ancora in maniera efficacissima nelle zone di oscurità. Joaquin Phoenix di I’m Still Here e lo stesso Casey Affleck sembrano dare il meglio nascosti. Nella tenda all’inizio del film in cui il protagonista racconta alla figlia la storia delle due volpi immaginarie e dell’Arca di Noé. In sintesi due elementi fondamentali: la possibilità di mimetizzarsi e il viaggio.
Un padre cerca di proteggere la figlia Rag di 11 anni dopo che una misteriosa epidemia ha sterminato gran parte del genere femminile. Sono infatti rimaste pochissime donne che vivono in una situazione di costante pericolo; gli uomini, vista la loro assenza, sono diventati sempre più brutali. Rag quindi è costretta a nascondere la propria identità e deve far finta di essere un maschio. Nonostante tutte le precauzioni, qualcuno è sulle loro tracce.
“Come si può amare qualcuno che non vediamo mai?”. I flashback sono rapidissimi. Dove la defunta madre, interpretata da Elisabeth Moss, è quasi un lampo dalla memoria. Forse quello di Light of My Life è soprattutto un cammino mentale prima che fisico. Non concettuale come The Road di John Hillcoat. Ma che entra soprattutto in una dimensione intimista come I figli degli uomini. Anche qui il mondo sembra essere sul punto di finire. Ma al tempo stesso Rag (Anna Pniowski, davvero magnetica) potrebbe essere la reincarnazione della ragazza rimasta misteriosamente incinta del film di Cuaròn.
Non sembra esserci più separazione tra gli interni e gli esterni: la tenda e il bosco, la casa abbandonata e la strada, quella dei nonni del padre e il paesaggio innevato. Con il protagonista che non ha nome. Padre generico ma al tempo stesso madre. In un cinema apparentemente controllato, ma in realtà tutto di pancia. Sottolineato dalle musiche di Daniel Hart che accompagnano discretamente il silenzio, la paura, il dolore.
A prima vista può apparire troppo dialogato. In realtà non lo è. Perché la parola al tempo stesso è difesa ed è rifugio. Ed è l’unico modo che ci permette, anzi che ci costringe a ricordare chi non c’è più. Ma che ci consente anche di negare il nostro passato. “Mia madre non c’è nella mia immaginazione” afferma Rag. Perchè quei flashback potrebbero essere la proiezione soggettiva del padre, della figlia. E potrebbero dare della stessa immagine, due versioni diverse. Qui sta ancora una volta l’estrema complessità del cinema di Casey Affleck regista. Saper andare oltre quello che mostra. e la parola si alterna con esemplare equilibrio con le scene d’azione. Il finale è, sotto questo aspetto, imponente. Ma basta anche che degli sconosciuti bussano alla porta. La fuga nell’armadio. Il salto da una finestra per poi dissolversi nel paesaggio. Con l’ultima casa illusoria, che ha qualcosa che arriva da Bergman. La preghiera davanti al camino. Le voci che sembrano lontane e invece sono vicinissime. Sono le stesse che sentiamo dall’aldilà. Quando i morti sembrano parlarci. Possiamo scegliere noi se sentirle o no. E ignorarle, forse, ci fa stare meglio.
Titolo originale: id.
Regia: Casey Affleck
Interpreti: Casey Affleck, Anna Pniowsky, Tom Bower, Elisabeth Moss, Hrothgar Mathews, Timothy Webber
Distribuzione: Notorius Pictures
Durata: 119′
Origine: USA, 2019
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani