Limbo, di Soi Cheang

Un thriller che sembra rispondere a forme e formule collaudate, persino innocue. Ma tra le righe, puoi leggere echi del presente, un’inquietudine difficilmente contenibile. In Berlinale Special

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Che fine ha fatto Hong Kong, ci chiediamo ogni tanto, tra una visione e l’altra. Quel cinema straordinario, ibrido, inclassificabile, sempre sospeso tra l’astrazione e la concretezza, la leggerezza e la densità, il corpo e l’assenza di gravità. I grandi vecchi navigano a vista, fanno fatica o tacciono. Mentre le straordinarie folgorazioni degli scorsi decenni sembrano essersi smarrite nel dominio delle produzioni cinesi. E, forse, viene da pensare, il cinema di Hong Kong più autentico, oggi, sta nelle immagini dei sistemi di videosorveglianza o nelle sequenze “rubate”, quelle che sfuggono ai controlli, ai blocchi e alle censure, tra mascherine di protesta e di pandemia. Qualcosa di “prodotto” arriva ancora, come Limbo, ma già il titolo sembra dare l’idea di una situazione di stallo, sospesa, una bolla soffocante da cui è difficile venire fuori. Del resto c’è sempre lo zampino cinese.

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Soi Cheang, dopo le parentesi di The Monkey King, torna al cinema thriller, quindi, in apparenza, a forme e formule collaudate. E, quindi, in un certo senso, persino innocue. Ma tra le righe, puoi leggere echi del presente, un’inquietudine difficilmente contenibile.

Uno psicopatico si aggira per la città uccidendo giovani donne “perdute”, a cui ha l’abitudine di mozzare la mano sinistra. Sulle sue tracce un giovane poliziotto, Will Ren (Mason Lee), un tipo ipercontrollato che sta mettendo su i “denti del giudizio”. E, poi, un collega più maturo, Cham Lau (Lam Ka Tung), ossessionato da una ragazza degli slums, Wong To (Liu Cya), che tempo prima ha investito la moglie con un’auto rubata. E sarà proprio Wong To la chiave di tutto.

Stavolta la precisione di scrittura e “di programma”, quella che era al centro di Accident, cede il passo allo scavo del delirio, alla nevrosi di una coazione a ripetere, alla vertigine della violenza. E tutto si traduce in una forma che muta a ogni istante, nella frenesia ossimorica di momenti action che si congelano in sdoppiamenti, ralenti, epifanie e stati di sospensione.

Soi Cheang riscopre ancora una volta l’antica ossessione hongkonghese, da One-Armed Swordsman in poi, per l’arto mozzato, per il corpo ferito, smembrato dai cut di montaggio. E fa di Wong To il personaggio centrale, simbolico, una specie di punchball umano, vessato e perseguitato da tutti. Polizia compresa. E non è certo un caso che sia proprio lei a indossare l’unica mascherina che si vede nel film. Stretta nella morsa, ma resistente. E se le dinamiche del thriller rimangono convenzionali e la forma appare estetizzante, resta negli occhi la visione, quasi “terminale”, di una città alla deriva, sporca, disperata. Una metropoli di rifiuti e macerie, di tutto ciò che resta lì buttato dopo un disastro o un inferno. Un mondo privato quasi di ogni forza vitale, smunto nel bianco e nero delle immagini.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.25 (4 voti)
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