L’incidente. Intervista a Giuseppe Garau

È possibile oggi lavorare ad un’idea di cinema indipendente, che sia al tempo stesso punk e sperimentale? Un dramma grottesco presentato negli USA ci ha provato. Abbiamo intervistato il regista

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Presentato in anteprima mondiale allo Slamdance Film Festival di Park City, Utah e distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Flickmates, a partire da giovedì 28 novembre, L’incidente è un dramma claustrofobico sul graduale percorso di deterioramento fisico e mentale di una giovane donna, in seguito ad un’incidente d’auto. Il film sarà in tour per i prossimi mesi. Ne abbiamo parlato con il regista Giuseppe Garau.

 

Come nasce L’incidente? Era dai tempi di Locke di Steven Knight che non rintracciavamo un film interamente ambientato in un veicolo in movimento

A livello narrativo, nasce perché ho avuto un incidente d’auto. Quando è accaduto, dopo qualche minuto ero circondato da diversi carroattrezzi e questa cosa mi ha un po’ incuriosito e ho scoperto lì, che è vera la questione dei bigliettini che tu vedi nel film. Ti promettono soldi in cambio se tu li chiami e gli dici di aver visto un incidente. La differenza è che nel reale la ricompensa è di 150 euro, mentre nel mio film è di 50. Quindi era qualcosa che mi incuriosiva molto. Quel giorno poi sono stato in compagnia di un ragazzo che guidava il carroattrezzi, quindi ho avuto anche questa mini finestra sulla sua realtà lavorativa, tra telefonate e corse da una parte all’altra della città. Ho iniziato a pensare ad una storia su una persona dall’animo gentile, che improvvisamente si ritrova parte di quello stesso mondo estremamente competitivo e bizzarro, che a che fare con il dolore. Rispetto a Locke e la questione macchina da presa, non c’è osservazione. Certamente prima di girare, ero un po’ nauseato da un certo conformismo di linguaggio. A me interessa particolarmente la scelta radicale degli autori, tanto nel cinema che guardo, quanto in quello che vorrei fare. È un tipo di esperimento che mi affascina, ma soprattutto mi diverte farlo.

 

Sul formato, il 4:3 certamente amplifica il concetto di claustrofobia e oppressione, lo hai scelto per questa ragione o ti è sembrato comunque il più adatto per quello che volevi raccontare?

Il film è girato in Super 16mm quindi tutti i rulli di pellicola conservano un 16:9 e in montaggio all’inizio, anche se per pochissimo lo abbiamo tenuto così. Però poi ho fatto qualche prova e il 16:9 non funzionava tanto, ho provato anche 1:1, ma era davvero complicato e solo Xavier Dolan è riuscito a farlo funzionare. Il 4:3 quindi mi è sembrato il formato più corretto, una volta montato il film. Proprio perché restituiva anche una seconda finestra oltre all’abitacolo. Non è stata una scelta nata a priori insomma, ci siamo dovuti arrivare, osservando e testando sempre più. Per un certo periodo lo abbiamo provato anche in bianco e nero per dirti e lì è successa una cosa divertente. Il film era stato selezionato dal Lucca Film Festival quando ancora era in bianco e nero. Quando poi è cambiato ed è diventato a colori, il programmatore del Festival ci ha chiamati, dicendoci: “C’è un problema, io lo ricordavo in bianco e nero. Deve esserci un errore di proiezione”. E lì abbiamo dovuto dirgli che no, il film era diventato ufficialmente a colori.

L'incidente. Intervista a Giuseppe Garau

Un cinema dalla forte componente documentaristica. L’immediatezza percepita sembra essere frutto d’improvvisazione. È così o apparteneva già alla sceneggiatura e alla graduale degradazione del personaggio e degli ambienti?

A livello di script, quindi di battute, è rimasto tutto così come era scritto. Però Giulia Mazzarino, che è l’interprete protagonista e così tutti gli altri, in realtà non hanno avuto nessuna possibilità di fare prove. Sono arrivati sul set e abbiamo girato. Tutto il discorso di improvvisazione riguarda quindi l’interpretazione, piuttosto che i contenuti della scena. È vero che lei si distrugge sempre più. È parte dell’arco narrativo del personaggio, anche se poi come l’ha reso, è stata una sua libertà. Una cosa curiosa rispetto a questo è che io avevo scritto il personaggio privandolo di espressività, ispirato da Kaurismäki per risparmiare pellicola e siccome condividiamo gli stessi problemi di budget e di durata, mi sembrava interessante mantenere lo stesso approccio nordico, asciutto. Poco dopo però mi sono reso conto che cozzava, che nasceva un contrasto proprio dalla libertà nata sul set. Una libertà che è stata totale.

 

Cinema sperimentale, documentaristico, dramma di finzione, thriller e grottesco. Tante anime che si incontrano. Cos’è per te oggi questo film, nel momento in cui è prossimo a raggiungere il suo pubblico?

Se penso a me, lo sento più sperimentale, rispetto alle altre dimensioni che hai citato. Io arrivo dal documentario quindi forse è vero che il film un po’ passa da lì, anche se io non l’ho mai vissuto realmente come tale, anche se poi lo è, basti pensare all’inizio. Lì è osservazione pura e poi penso che ci sia un elemento di documentario proprio nell’assenza di prove. È tutta osservazione, attesa e ricezione di ciò che accade, senza mai imporlo, senza mai forzarlo. Anche se non cercato il documentario c’è, è vero. Però lo vivo sempre come un esperimento. Sul grottesco anche. Il film inizialmente era pensato come drammatico, poi l’ironia è venuta fuori man mano che abbiamo proseguito con le stesure. Quindi ci siamo arrivati. Diciamo che nasce dall’influenza inevitabile che ha e avrà sempre su di me il cinema di Billy Wilder, influenza che io degradato. 


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