L’infinito, di Umberto Contarello
Autoritratto autoindulgente e narcisista ma mai (troppo) autocommiserativo, nonostante le evidenti influenze sorrentiniane trova una sua identità visiva, anche grazie a uno splendido bianco e nero

“Nella vita nessuno cambia mai veramente, è una cosa che si vede solo nei film” rispondeva Nanni Moretti ai dirigenti Netflix ne Il sol dell’avvenire, quando gli veniva detto che il suo film era “uno slow burner che non esplode”. Doveva essere più ambizioso, definire meglio l’arco narrativo del protagonista e, soprattutto, avere un momento “what the fuck”, perché “gli spettatori decidono se continuare a guardare un film nei primi due minuti”. Ecco, probabilmente anche L’infinito, scritto, diretto e interpretato dallo sceneggiatore Umberto Contarello, riceverebbe le stesse critiche e risulterebbe incompatibile con le logiche di algoritmo attuali. Ma – si chiede Contarello, esattamente come Moretti – è davvero un male?
Prodotto e co-scritto da Paolo Sorrentino, insieme al quale lo sceneggiatore ha scritto La grande bellezza, Loro, The Young Pope e This Must Be the Place, e dedicato a Carlo Mazzacurati, con cui ha iniziato la sua carriera, L’infinito è il debutto alla regia di Contarello nel cinema di finzione. Anche se in realtà di finzione tanto non è, visto che il protagonista è lui stesso: Umberto (il personaggio) è uno sceneggiatore di 64 anni la cui carriera è in decadenza tanto quanto la vita privata: cinico, disilluso e alcolizzato, cerca disperatamente di ricostruire il rapporto con la figlia Elena (Margherita Rebeggiani) e si vede costretto, pur di lavorare, a fare da mentore a una giovane sceneggiatrice (Carolina Sala) ossessionata dal trovare un turning point che “funzioni” per il film che sta scrivendo. Ma “funzionare”, replica Umberto, è un termine che va bene per i lavandini, non per le storie: “le storie o sono belle, o sono brutte”.
Non sarà l’unica volta che verrà menzionato il turning point, né l’unica in cui L’infinito lancerà frecciatine alla concezione moderna di storytelling e alle logiche dell’industria, come nell’incontro col produttore iniziale o quando Umberto sottolinea l’importanza di saper scrivere scene che non servono a niente. Il film stesso diventa quasi un atto di ribellione da parte di Contarello, il cui alter ego cinematografico un turning point non l’ha ancora vissuto – o forse ha già completato il proprio arco narrativo – e nemmeno il ricongiungimento con un’ex amante basta a salvarlo dalla noia e dalla solitudine.
Ma, prima ancora di questo, L’infinito è un autoritratto, inevitabilmente (forse fin troppo) indulgente con sé stesso e che non nasconde una certa dose di narcisismo ed egocentrismo, mitigato però da una costante e velata ironia di fondo che evita di farlo cadere del tutto nell’autocommiserazione. Emerge poi tutta l’influenza dello sceneggiatore nelle opere di Sorrentino (e viceversa), tra i continui botta e risposta dei dialoghi, gli aforismi, le ambientazioni, l’ossessione per le suore, qui oggetto sessuale proibito e ammirato da lontano, come la zia Patrizia di Luisa Ranieri in È stata la mano di Dio. Lo stesso Umberto non è altro che una versione più malinconica del Jep Gambardella de La grande bellezza.
Esteticamente, invece, Contarello riesce a distanziarsi parecchio dal regista di Parthenope, prediligendo inquadrature semplici, a macchina fissa, impreziosite da uno splendido bianco e nero fotografato alla perfezione da Daria D’Antonio, che regala alcune immagini notevoli. Come quella iniziale, uno sguardo in macchina che sembra un gesto di sfida, o quella finale, forse la più evocativa, che spiega il titolo e, sulle note di Gentle on My Mind, lascia con un mezzo sorriso in volto.
Regia: Umberto Contarello
Interpreti: Umberto Contarello, Eric Claire, Carolina Sala, Margherita Rebeggiani, Lea Gramsdorff, Stefania Barca, Alessandro Pacioni, Tahnee Rodriguez, Lena Guerre
Distribuzione: PiperFilm
Durata: 91′
Origine: Italia 2024