Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi, di Werner Herzog

Il cinema di Herzog, da sempre 2.0, è un lavoro di connessioni impossibili, gioca a disattivare qualsiasi firewall e ad aprire tutte le porte, con un’umanissima libertà “ipertestuale”

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A chi gli dice che, un giorno non molto lontano, le macchine saranno in grado di girare film come i suoi, Herzog risponde con il solito demoniaco candore: “non credo proprio”. Rivendicando non tanto la grandezza del proprio genio, quanto un residuo privilegio umano, seppur in una sfera sempre più ridotta, costretto negli angoli più remoti e impalpabili della realtà: l’arte, la morale, il sentimento, chissà… Il fatto è che Herzog sa bene che il cinema è da sempre una pratica di confine, di esplorazione e resistenza. Da un lato la macchina, lo strumento, tutto ciò che si muove lungo il progresso della tecnica. Dall’altro il mondo, quello spazio concreto in cui si dispongono e passano gli uomini e le cose, in cui, in un modo o nell’altro, nascono o finiscono le storie da raccontare. In mezzo, tra i due fronti, sta lo sguardo, l’occhio che osserva e che riprende: ed è una questione di traiettoria, prospettiva, di limite dell’inquadratura, di ciò che può essere mostrato e ciò che non deve, di differenza tra il filmabile e il filmato (“non mostreremo neanche una sua immagine da viva”). È una battaglia, in fondo, una selva di spari: fino a che punto la macchina può tagliare le carni del mondo. E fino a che punto è capace di coglierne i segreti che sfuggono all’occhio nudo? Finora i termini del conflitto, macchina e mondo, hanno sempre richiamato due concetti “pesanti”. Sono parole che fanno riferimento a cose che hanno un proprio volume, una geometria solida, estensioni che si slanciano nelle dimensioni dello spazio e del tempo. Sono affari di cavi, viti, bulloni, transistor, carrucole, argani, pulegge e poi alberi, selci, fiumi, corpi. E anche quando si trattava di inquadrare i sentimenti, le idee – tutta roba che fugge, evanescente – era sempre attraverso i corpi e il loro stare al mondo che bisognava passare. Ma ora le macchine si sono fatte leggere e la realtà stessa ha perso di peso. E gli occhi devono adattarsi.

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lo-and-behold-reveries-of-the-connected-worldEcco, la prima domanda che pone Herzog è come si filma internet, come si racconta questo mondo 2.0 in cui tutto sembra dissolversi nel flusso delle sinapsi, dei collegamenti, dei profili, delle identità social, degli scambi virtuali? Il punto probabilmente non è la tecnica, non è modificare il proprio linguaggio in ragione dei nuovi strumenti (la macchina) o in funzione delle trasformazioni concrete del nostro modo di vivere (il mondo). Semmai si tratta di rimodulare lo sguardo secondo un’altra strategia, spezzando definitivamente la consequenzialità dei racconti, per incrociare traiettorie all’apparenza incongruenti, inconciliabili. Cosa c’entrano con internet i brillamenti solari, cosa c’entra con il futuro interattivo che si apre sulle nostre vite l’esistenza isolata, eremitica di una piccola comunità che ha rinunciato a qualsiasi supporto tecnologico, o di chi si rinchiude in una gabbia di Faraday per sfuggire ai campi elettromagnetici? Cosa c’entra il mondiale di calcio dei robot con i voli nello spazio sognati da Elon Musk, il fondatore di Paypal? Tutto c’entra. Perché tutto è collegato, tutto fa rete. Chiedersi di chi sia la responsabilità nel caso di incidente provocato da un’auto che cammina da sola, non è una domanda oziosa né un monito per gli entusiasti. Significa pensare a ciò che sarà, significa già comprendere la dissoluzione della responsabilità e, quindi, del diritto soggettivi in nome di una regolarità meccanica della società, funzione-disfunzione. Apro parentesi: del resto il diritto già di per sé potrebbe essere un’operazione meccanica, regola il funzionamento e ripara la stortura. Ma svincolando del tutto l’evento dall’azione e, a maggior ragione, dall’intenzione, non dovrebbero esserci più delitti, più condanne, al massimo solo riparazioni pecuniarie. Sarebbe il mondo liberato dalle pene, dal carcere. Perché già “concentrato”, già ingabbiato nei meccanismi… Ecco, è solo un esempio, tra l’altro delirante, dei mille percorsi che lascia intravedere Lo and Behold.

 

lo-and-behold2In fondo il cinema di Herzog, da sempre 2.0, è un lavoro di connessioni impossibili, gioca a disattivare qualsiasi firewall e ad aprire tutte le porte, senza alcun timore di avventurarsi nel wild blue yonder, in quello spazio ignoto che si apre al di là dei discorsi ordinari. Anzi, nella libertà dei suoi link, è molto più aperto del world wide web immaginato da Tim Berners Lee, dove le connessioni procedono lungo direzioni obbligate. Semmai, la sua ipertestualità spinta assomiglia alle allucinazioni di Ted Nelson e del suo progetto Xanadu, in cui si immaginava un’idea di rete più libera, complessa e, per chi ama abusare della parola, “democratica”. Non a caso, proprio alla follia di Nelson Herzog concede il tributo di stima più schietto: “lei qui mi sembra l’unico sano di mente”. Perché davvero l’unico modello possibile è la sostanza fluida della realtà, che scorre incessantemente disegnando la trama infinita di tutte le relazioni possibili.

 

Herzog non racconta la storia di internet, nonostante parta dalle origini, da quella stanza della UCLA in cui è conservato il primo server, da quelle prime due lettere, LO, che sono un aborto di parola, come il balbettio di un bambino che prova a ripetere i suoni degli adulti. Racconta semmai il passaggio ormai inevitabile dall’epoca del dominio dei tecnici, quella che stiamo vivendo oggi, all’epoca del dominio inumano. Ma ciò che gli interessa sono i percorsi di fuga, gli angoli ottusi, i punti di vulnerabilità del mondo della rete. Non per tener fede a un partito preso, a un’idea preconcetta. Herzog non è un modernista né un reazionario. È un viaggiatore instancabile. E il suo è un metodo di viaggio, che traccia i percorsi solo dopo averli battuti, che disegna le figure a partire dal contorno, che individua il senso in quella zona sfumata in cui il tratto diviene un segno indistinto, si perde nel caos, che è il gioco ipotetico dei domani, degli scenari, delle conseguenze. Un internet che sogna se stesso, come chiede ossessivamente Herzog, parafrasando Philip K. Dick, è un ultimo romantico appiglio umano o una profezia disastrosa? Poco importa la soluzione. L’importante è domandare. E se lungo il percorso, Herzog sembra affezionarsi di più alle figure eccentriche, quelle che, in un modo o nell’altro, mettono in discussione l’ordine di questo nuovo mondo, come Nelson o come il superhacker Kevin Mitnick (che in fondo utilizza il più efficace e incorreggibile bug di sistema, la stupidità umana), è perché sono la conferma vivente che c’è sempre un diverso modo di guardare le cose. Esistono sempre altre idee, altre visioni, altre pratiche. Documentarle significa ricercarle. Fare cinema significa immaginare altro, sperimentare altro. Inventando una lingua per raccontare i regni oscuri e le fate morgane, i sogni perduti nelle grotte preistoriche e i sogni imperdibili di un mondo connesso.

 

Titolo originale: Lo and Behold: Reveries of the Connected World

Regia: Werner Herzog

Distribuzione: Wonder Pictures

Durata: 98′

Origine: USA, 2016

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