Lo strano caso degli influencer affiliati di Amazon
Una content creator americana affiliata ad Amazon avrebbe accusato di plagio una sua collega, sollevando un interessante dibattito sull’etica del marketing digitale
L’influencer americana Alyssa Sheil, 21 anni e 138 mila follower su Instagram, affiliata al programma di Amazon dedicato alla sponsorizzazione dei propri prodotti, è attualmente sotto processo. La causa è stata intentata da Sydney Nicole Gifford, 24 anni e 299 mila follower, anch’essa influencer legata al noto sito di e-commerce, che l’ha accusata di aver “copiato” determinati aspetti dei suoi video. Tra questi, la palette cromatica del set, gli angoli di ripresa, e persino elementi di vita quotidiana come il modo di parlare, le pose adottate e persino i tatuaggi.
Al di là dell’iter giudiziario che andrà a coinvolgere avvocati e giudici, il caso solleva un tema interessante, l’originalità dei contenuti prodotti dai content creator.
Questi ultimi, che realizzano brevi video principalmente per ottenere compensi economici, sono spesso accusati di uniformarsi a determinati standard estetici e strutturali piuttosto che distinguersi per creatività. Basta fare un giro sui loro account social per notare l’estremo livello di omologazione che caratterizza i filmati: arredamenti dominati da colori neutri come bianco e beige, talvolta alternati a elementi neri; riprese di outfit allo specchio, con l’obiettivo di mettere in risalto le forme del proprio corpo; linguaggio coinvolgente, magari legato a certe formule ricorrenti di contenuto in contenuto, dettagli, che, tra le righe, aiutano a fidelizzare lo spettatore.
Ci si chiede, quindi, quale sia stata la ragione principale dell’esplosione della “bolla” degli influencer. L’analista americana Emily Hund, in un’intervista al The Guardian, offre alcune risposte. Hund ricorda l’ottimismo dei primi anni 2000, quando i social media rendevano più semplice la condivisione delle opinioni. Dopo la crisi finanziaria del 2008, con molte persone alla ricerca di metodi alternativi per guadagnare, i blogger iniziarono ad attirare un pubblico fedele. Questo interesse non sfuggì agli inserzionisti, che investirono nei nuovi media digitali, in netta controtendenza rispetto alla crisi dei media tradizionali dello stesso periodo.
Tale fenomeno ha portato alla ribalta personaggi senza esperienza pregressa in settori come la cosmetica o la moda. Hund spiega: “Come società, veneriamo gli imprenditori e amiamo l’idea che le persone possano ‘essere sé stesse’. Questo ha reso il terreno fertile per gli influencer, visti come più autentici rispetto agli esperti tradizionali, perché imparavano insieme al pubblico i segreti del trucco o della moda. Dopo il successo della prima generazione di influencer, ci fu un’enorme ondata di nuovi aspiranti. Questo ha portato a un’inondazione di contenuti, obbligando gli esperti di pubblicità e marketing a trovare nuovi modi per sfruttare il fenomeno. Non bastava più essere influenti in senso quantitativo: bisognava dimostrare di essere ‘più autentici’ degli altri, sia verso se stessi che verso i brand.”
Tornando al caso di Sheil e Gifford, la questione non riguarda tanto chi abbia imitato chi, quanto l’originalità dei prodotti sponsorizzati da entrambe. Gli oggetti in questione non sono beni di lusso autentici, ma imitazioni da 800 dollari che danno solo l’impressione di lusso.
Questi influencer non si limitano a creare contenuti per ispirare il pubblico, ma puntano a reindirizzarlo verso l’acquisto su Amazon. In questo senso, rappresentano la versione più spietata del marketing degli influencer, dove ogni oggetto inquadrato è un’opportunità per guadagni microscopici (le cifre esatte sui compensi degli influencer affiliati non sono note, poiché Amazon non ha mai divulgato tali dati).
Ma il fatto che il principale beneficiario di queste vendite sia uno dei più grandi rivenditori al mondo rende la questione ancora più controversa, perché si starebbe parlando di un impero costruito su prodotti veloci, spesso di bassa qualità, che appaiono accattivanti in foto ma provengono da aziende anonime e finiscono spesso in discarica. È un modello, questo, che solleva parecchi interrogativi non solo sull’etica del marketing, ma anche sull’impatto ambientale e culturale di un’industria basata sull’apparenza e sul consumo sfrenato.