Locarno 56 – Trionfa il cinema del mondo povero

Un palmares dal chiaro significato politico per un festival che ha premiato l'impegno civile del cinema di paesi marginali e politicamente instabili, ma che ha anche confermato, con qualche piacevole eccezione, l'involuzione e l'omologazione stilistica di tanto, troppo cinema d'autore.

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La 56° edizione del festival di Locarno si è conclusa nel segno del cinema d'impegno civile. Un segno che, quando scarseggiano grandi e notevoli film, la scelta di premiare un'idea (e una forma) di cinema utile e onesta è la più facile, nonché, al di là della qualità delle singole opere, la più giusta.


A dire il vero, nel concorso internazionale un grande e notevole film c'era, quello dell'atteso Kim Ki-duk, che con il suo Bom, Yeoreum, Gaeul, Gyeowool, Geurigo, Bom (Primavera, estate, autunno, inverno, primavera) ha realizzato un tesissimo racconto morale sulla ciclicità della vita e sull'impervio cammino universale alla ricerca della maturità fisica e spirituale. Un film di cristallina semplicità, ritmato dal corso delle stagioni e da rimandi visivi tra i suoi cinque episodi, al quale, però, la giuria ha preferito la didascalica chiarezza di altre opere in programma, stilisticamente più incerte ma dai contenuti storicamente più definiti e dunque più accettabili e comprensibili dal vasto pubblico.

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È il caso, come detto poco sopra, dei film vincitori: il pakistano Khamosh pani di Sabiha Sumar (Pardo d'oro), dramma sugli scontri tra musulmani e indu nel 1979; il bosniaco Gori Vatra di Pjer Zalica (Pardo d'argento), commedia sulla vita in un paese colto da improvvisa fama per la visita di Clinton; il rumeno Maria di Calin Netzer (Premio speciale della giuria), cronaca della tragica vita di una donna sola alle prese con sette figli. Tre film provenienti da un mondo povero e cinematograficamente marginale, ma coprodotti con capitali europei e per questo esempi di un cinema d'autore poco originale, come nel pakistano, o parassitario, come nei due dell'est europeo (Kusturica è ovunque), efficace per smuovere l'emotività o il senso civile della platea, ma non per trasmettere anche visivamente il coraggio e l'impegno delle pur lodevoli intenzioni.


Non sfuggono ad un'impronta autoriale preconcetta anche quelle opere che mettono in scena un altro luogo comune del cinema contemporaneo – lo spaesamento dell'individuo – con uno stile fatto di silenzi, spostamenti senza meta e vicende all'occorrenza tragiche o grottesche: il giapponese Onna Rihatsushi No Koi di Masahiro Kobayashi e il kazako Malen'kie Ljudi di Nariman Turebayev, ad esempio, uniti dalla copruduzione francese e per questo, seppur nella distanza tra una storia d'amore e una di amicizia, fedeli ad una pratica stilistica che si vorrebbe in sintonia con gli umori sbiaditi dei protagonisti, ma in realtà a rischio continuo di appiattimento intellettuale.


Meglio, allora, quelle opere che hanno ancora il coraggio di affidarsi ad una storia compiuta (i due francesi Le marins perdu di Claire Devers e Mister V di Emilie Deleuze) o raccontano il credibile processo di crescita dei loro personaggi: il gelido Violence des éschanges en milieu tempéré di Jean-Marc Moutout, l'americano Thirteen di Catherine Hardwicke, indipendente girato in digitale con situazioni da melodramma familiare, e l'argentino Los guantes magicos di Martin Rejtman, tenera storia di amori e depressioni che racconta lo stato di crisi di un paese con la lucidità e l'ironia del miglior Kaurismaki.


 


È comunque nelle sezioni parallele che il festival di Locarno ha mostrato le sue opere più significative, svolgendo quello che dovrebbe essere il compito di ogni rassegna: ricercare le espressioni più moderne, innovative e destabilizzanti di un cinema che sondi e penetri il reale con la sola forza dello sguardo. Il Concorso Video, la sezione Cineasti del Presente e la Settimana della Critica sono state, in questo senso, le sezioni migliori, ricche di film dalla struttura variegata (racconti in prima persona, ritratti biografici, meditazioni filosofiche) che contribuiscono ad abbattere la distanza tra documentario e finzione e non si adeguano all'omologazione delle opere del concorso ufficiale.


Manca qui lo spazio per approfondire i titoli migliori, ma forse un loro rapido elenco può servire per ritornarci in futuro: Jesus, du weisst di Ulrich Seidl, geniale serie di ritratti di credenti in preghiera, Capturing the Friedman di Andrew Jarechi, impietosa ricostruzione di un caso di pedofilia, Dix-sept ans di Didier Nion, reportage sulla vita di un operaio adolescente, Adieu di Arnauld Des Pallierères, etica e rigorosa meditazione sulla morte e l'abbandono, Tout ce belle promesse di Jean-Paul Civeyrac, riflessione in punta di fioretto sull'elaborazione del lutto amoroso, e, infine, una delle opere più belle, Miso della coerana PARK Kyung-hee, film di e per donne, stilisticamente e narrativamente discreto nel descrivere la crisi fisica e interiore di una fotografa.


Tra i 500 e più titoli del cartellone sono solo pochi nomi, poche annotazioni, ma sono anche le immagini, le idee e i pensieri più chiari che rimarranno di questa edizione del festival di Locarno, calda, caldissima, per il clima patito, un po' meno per le passioni suscitate, ma neanche così brutta come potrebbe sembrare. In tempi di magra, dopotutto, ci si accontenta di quel che passa il solito convento. Aspettando, naturalmente, di essere smentiti dall'imminente festival di Venezia.

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