LOCARNO 66 – Conversazione con Jacqueline Bisset

Jacqueline Bisset

Sempre bellissima, la sessantanovenne attrice britannica è stata protagonista di una conversazione fiume, in cui ha raccontato gli esordi da modella per pagare gli studi di recitazione e il rapporto con i registi che l'hanno diretta. "I migliori autori, ha detto, sono quelli che amano i loro attori. Alcuni non li considerano nemmeno, ma perché fanno cinema allora?"

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Jacqueline BissetNon si risparmia Jacqueline Bisset. Dopo l'affettuoso ricordo di George Cukor ieri sera in Piazza Grande, prima della proiezione di Ricche e famose, l'ultimo film del maestro cui Locarno ha quest'anno dedicato una retrospettiva completa, di cui va molto fiera.

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Nella sua lunghissima carriera, iniziata da giovanissima, è stata diretta da Truffaut, Polanski, il citato Cukor, Claude Chabrol e John Huston, attraversando la nouvelle vague europea e il cinema americano classico.

 

Sentirla parlare, è come veder scorrere un film sul cinema, come se la sua vita fosse così come la racconta Truffaut in Effetto notte, piena di momenti di grande scambio umano ma anche di fragilità, dove il fascino del glamour convive con il senso di solitudine che la vita girovaga dell'attore porta con sé.

 

 

 

Gli esordi

Non sono mai stata una modella professionista. Per circa sei mesi ho fatto dei servizi fotografici per pagarmi gli studi all'Accademia di recitazione, ma non mi sono mai sentita tagliata per quella carriera. Al mio primo shooting mi avevano fatto i capelli ricci e mi vedevo grassa, un orrore. Però la moda e il lavoro accanto a grandi fotografi mi ha insegnato molto sull'importanza della luce nel cinema. La luce è come un dono d'amore, spesso la gente non si rende conto di quanto sia essenziale alla riuscita di un film, di come riesca a illuminare la verità e creare la giusta atmosfera.

jacqueline bisset cul de sacPolanski

Quando ero ancora una studentessa ricordo che per le strade di Londra vedevo questa bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi camminare avanti e indietro per la strada. Solo mesi dopo ho capito che era Catherine Deneuve e che stava preparandosi alle riprese di Repulsion. Roman lo conobbi mesi dopo ad una cena, mi disse "Sei una tale introversa che potresti diventare una grande attrice".

Tempo dopo partecipai al casting per Cul de sac e secondo lui ero troppo grassa, avrei dovuto perdere peso. Mi mandò da un medico che iniettava grasso di mucca per consentire di fare una dieta da 500 calorie al giorno, che è davvero molto poco. La feci e persi 5 kg ma comunque non ebbi la parte principale, che andò a Françoise Dorleac. Questo fu il mio ingresso nel mondo del cinema. Non molto invitante!

jacqueline bissetDa ragazza non immaginavo di poter diventare attrice, in Inghilterra in quel periodo era una professione considerata alla stregua della prostituzione. L'esperienza con Polanski però, a parte la sua durezza, è stata una delle cose migliori della mia carriera. Era un uomo affascinante e col tempo è diventato un regista ancora più grande di quanto non fosse già.
Ognuno nasce con un talento e ci sono registi bravi e registi geniali. Lui è decisamente di un livello superiore. 

 

 

Cibo

Una delle cose che amavo di più della vita del set era il cibo gratis. A quei tempi non avevo un soldo ed essere accolta, avere un assistente che si occupasse di te, fare pasti gratis era una cosa fantastica! Credo di aver ripreso ben presto i kg persi per Cul del sac.  Il cibo sul set è una cosa molto importante, nonché una delle grandi differenze tra il modo di fare cinema in Europa e in America. In Francia si mangia molto e si beve vino, in America è impensabile. Le pause pranzo sono momenti in cui la troupe si unisce – io bevevo Pernot e margarita assieme agli operatori e agli attrezzisti – perché ti aiutano a creare un legame umano che accresce poi la qualità finale del film.

 

Hollywood

 

Non volevo una carriera americana, volevo girare film in Gran Bretagna e in Francia. Dopo Due sulla strada, la Fox voleva mettermi sotto contratto ma non volevo avere costrizioni: accettai alla fine di girare un film all'anno per dieci anni per poter stare il resto del tempo in Europa.
Hollywood è un luogo di grande energia e di transizione: le persone arrivano, cercano di lasciare il segno e poi, se le cose non funzionano, la abbandonano. È un ambiente molto duro, lo era già a quei tempi, non oso immaginare come sia ora per un attore agli inizi gestire tutte quelle pressioni. 
Incontrai Frank Sinatra. Per me era una cosa impensabile vedere dal vivo una specie di leggenda. Per me Sinatra significava mio padre quando aveva voglia di allegria, di ascoltare musica e ballare. Con me fu gentilissimo, ma si vedeva che non era un uomo felice, si coglieva una tristezza di fondo.

 

 

effetto notteTruffaut ed Effetto Notte

 

Un ruolo che ho rischiato di perdere per colpa del mio agente americano che, non conoscendo Truffaut, aveva "dimenticato" di segnalarmi la proposta. Quando me ne accorsi gli dissi immediatamente di richiamare, quello era esattamente il tipo di cinema che avevo sempre sognato di fare e lavorare con lui era il sogno di ogni attore. C'era una scarsa conoscenza delle altre cinematografie all'epoca. 
Quando arrivai all'aeroporto di Nizza, François era lì ad aspettarmi, in piedi con un mazzo di gladioli in mano alto quasi quanto lui. Era molto serio, non sorrideva neanche, entrambi stavamo cercando di fare buona impressione all'altro. 
Nell'albergo in cui alloggiavo c'era Simone Signoret, che aveva l'abitudine di stare seduta nel patio avvolta in un caftano blu. Mi incuteva un terrore sacro. Pochi giorni dopo invece, ci spostarono in delle abitazioni e divisi la casa con Nathalie Baze, che era al suo primo film. Oggi è diventata un'attrice affermata. 

Il rapporto tra Truffaut e Jean-Pierre Léaud era sicuramente molto affiatato, così come quello con Suzanne Schiffman, sua abituale collaboratrice. Era come se si protegessero l'un l'altro. Jean-Pierre aveva un ruolo molto bello nel film, nella vita non l'ho conosciuto bene, era molto solitario.

 

Il set di Effetto notte era un po' confuso: dato che François interpretava anche Ferrand (il regista del film-nel-film Vi presento Pamela, ndr), quando diceva "Stop" non sapevamo mai se fosse lui o il suo personaggio nella finzione a parlare. C'era sempre qualche momento d'attesa e di perplessità fra noi attori. 

Io non capivo perché per interpretare una star americana avesse scelto me, che ero una specie di hippie. Mi disse che un giorno, in un cinema di Nizza, mi aveva visto in La macchia della morte di Paul Wendkos e aveva pensato che sarei stata perfetta per la parte, anche se quello non era certo il mio miglior film e il personaggio non aveva nulla a che vedere con quello che aveva in mente. La sensazione più bella era quella di essere stata scelta da lui, il fatto di percepire chiaramente che tra altre centro attrici non avrebbe visto nessuna eccetto me in quella parte.

 

Nella vita privata François era molto più ironico del suo personaggio nel film. Ma era completamente assorbito dal cinema. Non gli interessava assolutamente il cibo, cosa strana per un francese, ed era quasi innervosito dalle pause pranzo, che sottraevano tempo alle riprese. Odiava il modo borghese di vivere tipicamente francese, di chi è capace di fare ore d'auto per andare a mangiare al ristorante.

Diceva che non aveva bisogno che le persone lo conoscessero personalmente, perché bastava guardare i suoi film: dentro c'era tutto di lui.


il buio nella mente

Chabrol e la borghesia

 

Quando fui chiamata a recitare in Il buio nella mente, non conoscevo molto i suoi film ma ero onorata all'idea di lavorare con lui. Però quella fu un'esperienza strana, perché interpretare una donna borghese sapendo quanto odiasse la borghesia mi metteva a disagio. Mi chiedevo che idea avesse di me. Il fatto che poi si disinteressasse abbastanza del mio personaggio per concentrarsi, anche giustamente dato che erano le protagoniste, su Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire, mi faceva sentire un po' una outsider su quel set. Non c'era improvvisazione, tutto era scritto, i movimenti di macchina programmati in anticipo. Mi sentivo una specie di bambolina. 

 

Credo che la definizione giusta per Chabrol fosse quella di "gauche caviar", quella borghesia intellettuale di sinistra che disprezza la sua stessa classe sociale.

ricche e famose cukorRicche e famose e George Cukor

 

Ho adorato rivedere il film ieri sera, in Piazza Grande. Tendo a essere molto autocritica ma di quel film vado fiera. È anche la mia unica co-produzione, anche se quella parte dell'esperienza fu meno bella. Ma Cukor rappresentava il massimo livello a cui potessi aspirare come attrice.

Aveva un ritmo musicale, nei tempi, nei tagli sui personaggi. Quel film mi ha insegnato l'importanza del linguaggio corporeo. Io ero fissata col modo di girare di Cassavetes, di Bergman, molto vicino al volto dell'attore. Con Cukor e John Huston ho imparato che il corpo può esprimere tanto quanto il viso. Molti attori sono a disagio con il loro corpo, si nascondono dietro gli oggetti di scena, perché non sanno dove tenere le mani. Questi registi ti facevano dimenticare della posizione da tenere, col loro modo musicale di girare ti liberavano. 

Cukor odiava le pause, i tempi morti. Ogni volta che un attore con una piccola parte, per prendersi più spazio sullo schermo, tendeva a dilatare il tempo di una battuta, gli gridava "Faster! Faster!". Ci diceva che stavamo perdendo l'interesse del pubblico. 

Pauline Kael stroncò il film, accanendosi in particolare con le scene di sesso, filmate in maniera insincera secondo lei per la celata omosessualità del regista. Lui non guardava le scene di sesso, quando erano programmate se ne andava dal set. Io le trovo ben fotografate, anzi, credo siano fra le migliori scene di sesso che ho girato.

 

welcome to new york abel ferraraJohn Huston e l'attitudine del regista
 

Lavorai con lui in Sotto il Vulcano. Era autocratico, molto virile, quasi maschilista. Ci sentivamo tutti molto altolocati, di classe. Io interpretavo una donna fragile circondata da uomini forti.
Lui, così come altri registi più anziani con cui ho lavorato, da Cukor a Monicelli e Comencini, erano abbastanza duri con gli attori. Io credo molto nel rapporto tra regista e interprete. Il set è una specie di tribu, in cui si crea una chimica particolare fra persone che per alcuni mesi diventano di famiglia e poi forse non rivedrai più. 

 

Amo i registi che lasciano provare gli attori prima di girare. Ci sono registi a cui non importa niente degli attori e mi chiedo perché facciano cinema. Il regista dev'essere una sorta di "Padrino": deve essere il padrone del set, ma allo stesso tempo saper essere caldo, accogliente, saper concedere momenti di libertà che significano qualità in termini creativi.
Ma soprattutto deve sapere come e dove posizionare la macchina da presa: come attore puoi dare la migliore performance del mondo, ma tutto si riduce a quello che finisce nell'inquadratura. Conta solo quello che il pubblico vede sullo schermo. 

 

 Abel Ferrara e i desideri nascosti

 

Ho da poco finito di girare il suo ultimo film, Welcome to New York (film ispirato alla figura di Dominique Strauss-Kahn, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, ndr), ora in postproduzione. Abbiamo parlato via Skype e col suo aspetto selvatico sullo schermo del computer mi sembrava un marziano. È un uomo tenero, dolce, che sul set ama le improvvisazioni ed è capace di buttare nella spazzatura la sceneggiatura. 

Con chi vorrei lavorare oggi? Tra i registi mi piacerebbe Michael Haneke, fra gli attori vorrei essere partner di Javier Bardem. E, dopo che per una vita ci hanno scambiato l'una per l'altra, vorrei interpretare la sorella di Charlotte Rampling. 
Per i ruoli, resto fedele al consiglio che mi diede un attore all'inizio della mia carriera: "Se vuoi durare a lungo in questo mestiere, non scegliere storie di tendenza". E in effetti sono film che invecchiano male, dopo due anni a rivederli sembrano ridicoli. Il classico resta perché la natura umana non cambia.

 

 

 

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