LOCARNO 66 – "E agora? Lembra-me" e "Pays barbare", la memoria e il reale (Concorso Internazionale)

E non solo del Concorso, perché anche un "cineasta del presente" talentuoso come il francese Blaise Harrison (che aveva vinto il Festival dei Popoli con Armand, 15 ans l'été) mette in scena i musicisti dell'orchestra di una cittadina di provincia del suo documentario L'Harmonie, con sequenze di immagini di grande naturalezza ma la cui precisione estetica rivela uno sguardo assai mediato sui volti dei protagonisti e i luoghi che attraversano.
Realtà, finzione? Che importa, ormai? Per Harrison è chiaramente l'armonia interna alle singole inquadrature e la loro dialettica a governare il racconto, senza distinzione tra cio' che spontaneamente si offre all'occhio della telecamera e quello che gli viene piegato.
È lo stesso confine indagato anche da due film del Concorso molto diversi tra loro per intenti e mezzi, eppure affini nell'uso di materiale eterogeneo, assemblaggio di found footage e rielaborazione personale.
Unico già per la sua singolare genesi – di quelle opere terribilmente umane e irripetibili, un po' come La guerre est declarée della giurata Valerie Donzelli – il portoghese E agora? Lembra-me, è il diario intimo del regista e produttore Joaquim Pinto, e della sua lotta quotidiana con Hiv ed epatite C.
Documento doloroso del progredire di una malattia che consuma, in cui le immagini acquistano un valore testimoniale, sia quando a essere ripresa è la routine dei gesti quotidiani, il sonno, la veglia, lo stare sdraiato su un prato, circondato dai cani amati. Sia quando, pur non essendo girate manualmente, raccontano comunque la vita del protagonista, il suo passato, i suoi interessi. Pinto si serve del found footage per fare una mappatura della sua esistenza prima dell'effetto catalizzatore della malattia, assemblando visioni cinematografiche, letture, voci degli artisti amati e già deceduti, a volte per lo stesso male, come Serge Daney, citato così spesso, o Pasolini, il cui Teorema "illumina per un attimo un cinema che proiettava solo porno".

Totalmente dedito al found footage è invece Pays barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. I due cineasti scandagliano gli archivi cinematografici per ritrovare nelle immagini di repertorio quello che chiamano l'erotismo coloniale, alla base del fascismo che "insolente, atrocemente farsesco, storicamente si ripresenta".
Dalla scena-primaria del cadavere di Mussolini in Piazzale Loreto procedono a ritroso verso i filmini di guerra di Abissinia, con gli indigeni in costume, messa in scena di un Paese, di un popolo e della sua volonta auto-rappresentativa.
Alle immagini giustapposte – che arrivano dai filmati al pre-cinema, alle fotografie riportate in negativo – fa da contraltare il sonoro, con i commenti e le letture musicate di Giovanna Marini.
Si leggono gli scambi epistolari di un soldato partito per il fronte con la fidanzata rimasta a casa, in un continuo lavoro di rielaborazione emotiva e personale di un materiale che pur essendo già lì non vive che grazie attraverso la rilettura. E se sul piano del linguaggio non v'è molto di nuovo in questa riflessione che risale anzi alle prime discussioni sull'estetica cinematografica, attuale è il contesto in cui questo bisogno nasce. L'archivio, per Gianikian e Ricci Lucchi diventa una strenua forma di resistenza a un oblio storico sempre più pericoloso: "Siamo immersi in una notte profonda. Non sappiamo dove stiamo andando. E voi?".