LOCARNO 67 – "L'atto del filmare dev'essere fragile". Incontro con Agnès Varda

agnès varda
Agnès Varda
si racconta alla platea locarnese, in occasione del Pardo alla Carriera. Fotografa, cineasta e ora soprattutto visual artist, sta vivendo una terza vita, nella quale tutte le esperienze pregresse sono riassorbite e rimodulate. Perché l’interesse primario è stato e rimane quello verso il mondo

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agnès vardaSans toit ni loi, come il titolo di uno dei suoi film più celebri, Agnès Varda si racconta alla platea locarnese, in occasione del Pardo alla Carriera. Già al suo arrivo allo Spazio Cinema, dove viene accolta dal critico-moderatore Jean-Michel Frodon, scombussola la scaletta ordinatissima degli incontri, arrivando in leggero ritardo ma soprattutto intrattenendosi più dell’orario consentito “Se non c’è niente dopo perché dobbiamo chiudere? Non si deve fermare la vita!”.

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Una frase che riassume il senso di un’esistenza e di una carriera fra le più singolari del mondo del cinema, dove lo schermo è sempre soltanto una parte e non il tutto: fotografa, cineasta e ora artista visuale – “Preferisco l’inglese visual artist alla definizione di artista plastica” – Agnès sta vivendo una terza vita, nella quale tutte le esperienze pregresse sono riassorbite e rimodulate.
Perché l’interesse primario è stato e rimane quello verso il mondo: “Lo schermo che pure tutti amiamo è piatto”, dice. “A me invece piace osservare la gente mentre guarda i miei lavori. Entro in sala e mi siedo nelle ultime file per scrutare quelle teste rivolte verso lo schermo; o nei musei, quando espongo, sono sempre incuriosita da chi guarda e passa oltre come da chi viene catturato, chissà da cosa!”

 

Nouvelle Vague
 
Ci sono equivoci perpetuati negli anni su cui non transige, come la sua appartenenza alla Nouvelle Vague: “Sono sempre a disagio quando si parla di Nouvelle Vague perché è stata soprattutto una definizione giornalistica, costruita. Per me c’era il gruppo dei Cahiers, che ammiravo ma a cui non mi sentivo molto vicina; c’erano Resnais, Demy, Marker, la cosiddetta rive gauche, e in effetti il nostro cuore batteva più a sinistra rispetto agli altri!
 
 
Eravamo tutti diversi, io ad esempio non conoscevo bene il cinema americano né ero stata assistente di set. Venivo dalla pittura, il linguaggio cinematografico l’ho scoperto a poco a poco da autodidatta. Adoravo Jacques Prévert e ho visto più volte i film scritti per Marcel Carné.
 
Ma non sapevo nemmeno dove si trovasse la Cinémathèque. I miei nuovi amici mi hanno fatto una lista essenziale, obbligatoria: prima Vampyr di Dreyer, poi pian piano Citizen Kane, il Neorealismo italiano…Ma in fondo penso che sia stata una fortuna averli conosciuti dopo il mio esordio. Se li avessi visti prima, ne sarei stata così intimidita che non avrei mai iniziato a fare cinema! È stata proprio questa sorta di innocenza verso l’immagine ad avermi reso una regista.
 
 
L’esordio
Perché ho fatto un film? Mi piaceva questo piccolo gruppo di pescatori, ero interessata a quello che avevano da dire. Non mi importava del linguaggio o delle finezze cinematografiche (Philippe Noiret si sentiva castrato in questo: voleva esprimere della psicologia, io gli ho detto di limitarsi a leggere il testo senza intonazioni, come nel teatro No giapponese…) io volevo dare parola a chi non ha voce. La pointe courte è stata una grande scuola di cinema, ma soprattutto di vita. Non bisogna mai dimenticare l’esordio. Quando si costruisce una vita di cinema ci si deve ricordare di ci ha aiutato all’inizio, con la sua solidarietà, la sua generosità.
 
 
Persone
In Agnès de ci de là Varda sono tornata alla Pointe Courte. Davanti a un garage c’erano le foto fatte durante le riprese e questo signore di mezz’età mi ha detto “Agnès? Non mi riconosci?”. Era il giovane che stava sulla barca, come avrei potuto capirlo dopo tanto tempo? Era così bello allora! Quando il bar a cui avevamo lasciato quelle foto aveva chiuso le aveva riprese lui, in ricordo. Qualche settimana dopo questo nostro incontro era morto, mi ha intristito molto. Per me la vita vera si intreccia sempre col ricordo del set, non riesco a lasciarlo andare facilmente.
 
Quando ho girato Les glaneurs et la glaneuse è successo lo stesso: tempo dopo sono andata a rincontrare i protagonisti di quelle storie, alcuni erano finiti male, internati, però c’era anche una donna che invece si era innamorata. Mi ricordo il suo viso, era una donna brutta, malandata, ma aveva adesso uno sguardo meno cupo, più felice.
 
 
daguerreotypesOgni volta che Les glaneurs viene proiettato in un festival e riscuote grande successo mi chiedo: Capite che non applaudite me ma loro? Sono le persone riprese i veri protagonisti. Il problema è che una volta finito il film vengono lasciate di nuovo lì nel loro mondo, abbandonate a se stesse. E per me è difficile conoscere le persone e poi abbandonarle. Non si può.
 
 
Le persone sono sempre sorprendenti: e io amo più fare documentari, che film di finzione. La gente normale è più bella da riprendere degli attori, che mi intimidiscono sempre un po’. Per questo anche nei film più scritti, sceneggiati, cerco di abbattere i confini di linguaggio, di mantenere uno sguardo il più possibile documentario.
 
 
Daguerreotypes:
Ho avuto la fortuna di poter viaggiare, di trovarmi a essere testimone di eventi particolari d poter riprendere, come i graffiti a Los Angeles negli anni Ottanta o la regione della Drome, dove ho fatto un film sulla gente che durante l’Occupazione dava rifugio agli ebrei. Persone normali, macellai, maestri di scuola, si sono prestati a interpretare i loro nonni, a far rivivere quel momento.
 
 
Ma dopo la nascita del mio figlio più piccolo, che ho avuto già da adulta e verso il quale ero quindi più protettiva, per un po’ non ho voluto viaggiare. Vivevo a Daguerre e ho fatto un film sulla mia strada, sui miei vicini. Nel raggio di 90 metri avevo tutto a portata di mano: la lavanderia, la drogheria, il forno, la macelleria…un piccolo mondo a portata di mano, completamente autosufficiente. Per girare senza gravare loro dei costi dell’elettricità collegavo un cavo per la corrente da casa mia, che copriva proprio questi 90 metri.
 
 
Quando un critico ha visto il film, ha scritto che questo cavo era come un cordone ombelicale che non volevo recidere. E ho pensato: Cavolo è vero! Mi ha insegnato qualcosa su di me che non avevo colto. Certe scelte di ripresa, anche alcune inquadrature, vengono fatte dal nostro inconscio. Sono dell’idea che il film non è più solo tuo quando esce in sala e sia gli spettatori sia i critici possono aiutarti a svelare il perché di tali scelte.
 
 
L’atto di filmare dev’essere fragile, bisogna girare in una condizione di indeterminatezza per potersi aprire alla vita. E poi, è essenziale che ogni film sia realizzato con il supporto adeguato. Nei documentari come Glaneurs et glaneuse mi sono servita necessariamente di piccole telecamere, non sarei potuta andare fra queste persone con una gru e una troupe di cinquanta persone. I nuovi strumenti devono corrispondere a un approccio più immediato.
 
 
Oggetti d’arte, la vita e la morte
Oggi faccio dei lavori in cui tento di mettere insieme nell’arte la fotografia e il cinema. Ho voluto riconciliare il bianco e nero e il colore, l’argentico e il digitale e far ritrovare nel missaggio queste mie tre vite. Posso partire da oggetti quotidiani come le patate. In Patatutopia ho ripreso queste patate a forma di cuore che avevo trovato e ne ho messe alcune al buio, altre alla luce. Dopo un po’ erano rattrappite, ma continuavano a mettere radici. Non erano più commestibili, quindi inutili, ma continuavano a dare la vita.
 
 
 
In Messico ho girato Le Bonheur. Un concetto che mi affascina perché esiste come istinto prima della morale e dell’organizzazione sociale. Loro hanno un’idea della morte completamente diversa dalla nostra, più sana. Si ride di un destino comune e il giorno dei morti le persone mangiano questi dolcetti a forma di teschio, di scheletro. È bella l’idea che diventiamo qualcos’altro.
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