#Locarno68 – Southpaw, di Antoine Fuqua

Fuqua lavora sull’archetipo del film sulla boxe trovando il suo centro nella strada. Quella a cui deve tornare, per salvarsi, tanto il pugile quanto il cinema, troppo lontano dalle sue mean streets

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Dopo la rocker di Jonathan Demme arriva a Locarno il pugile di Antoine Fuqua, seconda icona americana di un terzetto, chiuso domani dal Trainwreck di Judd Apatow, cui spetta di portare alta la bandiera a stelle e strisce nella sezione Piazza Grande.

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Ed è un film spiazzante questo Southpaw, facile a deludere le aspettative di chi viene dalla visione di un trailer “pompatissimo” e travolgente. Fuqua lavora invece di sottrazione, dissezionando l’archetipo dei film sulla boxe, a cui rimanda e da cui si allontana costantemente, alternando nostalgia e presa di coscienza di quanto quel cinema sia sostanzialmente irripetibile, andato, e come l’epica che lo animava sia oggi impossibile.

Ecco allora Billy Hope, nome da orfanello e corpo cresciuto a suon di pugni, senza difese (“parare i colpi non significa prenderli tutti sulla faccia”), campione del mondo all’apice del successo, circondato dalle donne della sua vita, la moglie-manager Maureen e la figlia Leila. Eppure, in tutto quel lusso il protagonista sembra a disagio, come fosse un fondale dipinto, una quinta scenica. La realtà è in agguato ovunque, nel fuori campo, pronta a invadere l’inquadratura. E la realtà altro non è che la strada, da cui Billy proviene e a cui dovrà fatalmente ritornare, per ritrovarsi e salvare ciò che resta.

southpaw jake gyllenhaalNello scarnificare il modello, Fuqua comprime gli eventi, a costo di risultare schematico. Ma non è solo Billy a interessargli. La sua caduta, il duro sentiero per risalire in vetta, che passa attraverso la palestra di quartiere del magnifico Forest Whitaker, la rivincita, sono tappe necessarie che trovano nella strada il loro centro. Ne ha bisogno la boxe, inesorabilmente indebolita dal lusso, così come ne ha bisogno il cinema. E di questo Fuqua è perfettamente consapevole. La sua intera filmografia sembra volersi riappropriare delle mean streets abbandonate dai cineasti che le avevano elette a centro nevralgico della  loro poetica. Da Training Day a Brooklyn’s Finest, a The Equalizer, è la strada a catalizzare gli eventi del cinema di Fuqua, a muovere i suoi protagonisti e ad attrarre irresistibilmente anche il Billy di Jake Gyllenhaal.

southpaw fuquaSpariti i soldi, perso per sempre il motore della sua riscossa – una Rachel McAdams “dall’oscurità luminosa”, come l’ha definita Gyllenhall, capace di segnare con la sua presenza/assenza l’intero film – il pugile torna al mondo che conosce, e con lui il regista. Rientrato fra i suoi luoghi, Fuqua traccia continue traiettorie centrifughe, accennando microstorie, illuminando brevemente angoli destinati a rimanere bui: la ragazza-madre tossica, il ragazzino della palestra ucciso per aver tentato di difendere la madre, lo stesso misterioso Whitaker, dream-casher che riporta Billy in vetta.

Allora quel mondo sommerso trova nel ring lo spazio della riscossa. Il quadrilatero diventa un luogo liturgico, rimarcato dall’inquadratura dall’alto, posizionato come un altare all’interno della chiesa che ha ospitato l’incontro di beneficenza.
I combattimenti, però, non possono più avere la lucentezza della saga di Stallone, né la messa in scena calibratissima, tra bianco e nero ed effetti vertigo, degli incontri di Jake La Motta. Il posto accanto al ring resta vuoto e la piccola Leila può guardare il padre solo dalla tv nel foyer, mentre intorno a lui si levano gli immancabili microschermi dei telefoni a fissare la vittoria.
Eppure è una vittoria triste: perché a distanza il sudore brilla meno, il dolore fa meno male. Ma la vita che scorreva nei colpi presi e dati dai pugili dello schermo, tutti presenti in filigrana nell’occhio di Fuqua, è ancora in quelle strade che il cinema non sembra avere più il coraggio o la forza di raccontare.

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