#Locarno69 – Critical Cultures of the Digital Age: lo stato delle cose

Moderato daEric Kohn, critico di Indiewire, sono intervenuti Alison Willmore (Buzzfeed), Frédéric Jaegar (critic.de) e Kevin B. Lee (Fandor)

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Sono in molti – forse più di quanti non si aspettassero gli stessi organizzatori – gli spettatori assiepati nella piccola sala teatro del Paravento, nel pomeriggio di mercoledì 10, per seguire la tavola rotonda sulle ‘culture critiche dell’era digitale’. Segno che almeno nei circuiti festivalieri l’urgenza di fare il punto sullo stato delle cose, per quel che riguarda il discorso sul cinema, è viva e forte.

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Moderatore dell’incontro Eric Kohn, critico di Indiewire, pubblicazione online statunitense con un occhio privilegiato per il cinema indipendente: a interloquire con lui ci sono Alison Willmore, critica di Buzzfeed, Frédéric Jaegar, redattore capo del sito tedesco critic.de, e Kevin B. Lee, fondatore e responsabile della redazione video di Fandor. Un tavolo a forte presenza nordamericana, quindi, il che non manca di generare qualche incomprensione nel rapporto col pubblico.

Si parte col ruolo del cinema nell’ecosistema digitale corrente. Willmore nota che ormai film e serie tv appaiono fianco a fianco nel proprio catalogo Netflix, ma si affretta ad aggiungere che questa equiparazione non ha azzerato la voglia di discutere su ciò che si guarda, anzi. «La ragione per cui la gente è attratta dalla televisione – spiega – è la fame di storie. Il bisogno di discussione esiste ancora, ed è per questo che online vediamo proliferare formati come gli appunti di visione settimanali: c’è una voglia di parlare, di confrontarsi con l’esperienza di una visione condivisa, o almeno condivisa virtualmente, e questa voglia si sta evolvendo in direzione dell’analisi critica».

Eppure – incalza Kohn – la compresenza di film e altri materiali audiovisivi sulle stesse piattaforme comporta che spesso, con buona pace di David Lynch, si corra il rischio che il pubblico guardi film – anche film importanti – su schermi minuscoli, o in modo frammentario.

Willmore ribatte che più di rischio si dovrebbe parlare di fatto compiuto: inutile nascondersi la realtà. E certo, si perde l’assorbimento. Prevalgono modalità di visione distratta rispetto all’immersione nel film che la sala ancora consente. «Se guardi un film con un occhio sì e uno no, puoi davvero dire di averlo guardato?»

Jaegar nota però che il successo dei festival di cinema testimonia anche di una tendenza opposta, e che il pubblico è ancora interessato all’esperienza della visione in sala: le due modalità non si annullano a vicenda. Del resto – si intromette Lee – le pratiche e le abitudini legate alla sala sono esse stesse cambiate nel corso dei decenni, e tuttora vanno cambiando: basti pensare agli esperimenti col cinema 4D, che include aromi, nebbie, e altri effetti simili nel corso della proiezione.

Kohn sposta il discorso sul problema della pressione delle comunità online, che spesso costringe il critico professionista a scrivere di film mal riusciti o comunque di scarso interesse.

È a questo punto che il divario atlantico si fa sentire. Di fronte all’esempio portato da KohnSuicide SquadJaeger fa spallucce: «Non ho visto il film e non ne abbiamo parlato. Una pagina bianca è una presa di posizione possibile: esiste un tipo di giornalismo cinematografico che risponde alle aspettative degli appassionati, e in ultima analisi partecipa alla promozione dei film. Si tratta di una forma legittima di giornalismo d’intrattenimento: serve a uno scopo, e senz’altro attira più soldi. Ma non è critica»

Più conciliatorio Lee: si può provare a stimolare approcci critici, sostiene. «Per Suicide Squad – ad esempio – ho scritto un pezzo su come l’attrice protagonista abbia dovuto confrontarsi con ruoli e atteggiamenti sessisti nella prima parte della sua carriera».

In chiusura, Willmore raccoglie la suggestione di Lee ed elabora: «la promozione attiva di uno sguardo diverso è una parte importante del lavoro del critico oggi, soprattutto nel rapporto con le comunità digitali. È molto facile per uno spettatore qualsiasi dare per scontato che un dato film sia al di là del proprio vernacolo culturale. Compito del critico è trovare la via per farglielo arrivare, e se nel farlo si finisce per paragonare otto ore di Lav Diaz a una maratona di Lost, poco male». È l’era digitale, bellezza.

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