#Locarno69 – Der traumhafte Weg, di Angela Schanelec
Film austero e anti-espressivo, debitore di Bresson nell’approccio alla recitazione e nell’attenzione al gesto, Der traumhafte Weg si nega a ogni facile interpretazione. In concorso

Essere un attore non significa essere meno solo. Si chiude così, con una mezza dichiarazione di poetica, l’ottavo lungometraggio di Angela Schanelec, in concorso a Locarno. Un’imbeccata che aiuta appena a penetrare la sostanza di un film impervio, cerebrale. Ma forse è proprio da qui che occorre partire: dall’impossibilità di andare a fondo.
Due coppie, l’una giovane, l’altra di mezza età, affrontano a trent’anni di distanza il fallimento delle proprie rispettive esperienze amorose. Il filo che tiene insieme le due storie è sottile. Da una parte c’è un amore di gioventù su sfondo greco, tra un’aspirante maestra tedesca e un aspirante cantante inglese, interrotto dall’improvvisa malattia della madre di lui. Dall’altra c’è una crisi matrimoniale, tra un’attrice televisiva matura e un antropologo affermato, sullo sfondo di una Berlino piovigginosa dove alla fine i personaggi, per caso o per disgrazia, si incrociano tutti.
Appunto: caso o disgrazia? Film austero e anti-espressivo, debitore di Bresson nell’approccio alla recitazione e nell’attenzione al gesto, Der traumhafte Weg si nega a ogni facile interpretazione – alla possibilità di andare a fondo, appunto – e si affida piuttosto a un impianto di messinscena appiattito sulle immagini, su configurazioni formali rigorose ma svuotate, in cui è evidente l’intenzione di distanziamento, sin dalla scelta del formato fotografico, un 4:3 intimo quanto ingessato.
Il tema è quello della perdita, dell’isolamento, del muoversi alla cieca: tutto in sottotraccia, si capisce, e viene quasi da pensare a Ozu. Senonché, sullo sfondo di queste sfilacciate storie d’amore, si intravedono eventi collettivi come l’ingresso della Grecia nell’Unione Europea e la caduta del Muro. Sono solo accenni: il film si tiene alla larga da facili articolazioni storico-narrative. Lo stesso passaggio del tempo, a livello diegetico, si indovina senza che sia mai puntualmente indicato.
La suggestione però rimane. Il punto sta nel capire se la dissoluzione di questi rapporti amorosi, la loro labilità o non-sostanzialità, vada letta (come suggerisce Giovanni Marchini Camia [http://filmmakermagazine.com/99508-locarno-critics-notebook-2-the-dreamed-path-the-sun-the-sun-blinded-me-and-the-human-surge]) come manifestazione di una sotterranea impossibilità esistenziale, e quindi in chiave di tragedia, oppure – come sembra piuttosto a me – come ammissione di una sconfitta storica.
Detto altrimenti: gli accenni ai rivolgimenti della recente storia d’Europa non sono controcampi ironici di una raggelata partitura emotiva. Sono, invece, la ricognizione di un’utopia fallita, la cui sostanza profonda è ormai perduta. La si può solo ri-costruire a distanza, superficialmente, come una coincidenza di storie che si incrociano senza capire perché lo fanno. Qualcosa, dentro, là dove sogni privati e sogni collettivi si incrociano, si è rotto: ma si è rotto da tempo, e non ci sono che i cocci da raccogliere, i gesti svuotati di senso – o, meglio, le immagini. Le immagini e la solitudine: perché (appunto) essere un attore non significa sentirsi meno soli.