#Locarno69 – L’indomptée, di Caroline Deruas

Primo lungometraggio della cineasta francese in cui la ricerca un problema di sguardo, di rapporto (culturale) con la forma. Concorso Cineasti del presente

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Camille (Clotilde Hesme) scrive. O meglio scriveva. Da tre anni è bloccata, schiacciata, intuiamo, dall’ombra massiccia e ingombrante del marito, scrittore più vecchio, di fama, egocentrico, scettico del talento della moglie. Axel (Jenna Thiam) fotografa. Fotografa d’istinto, mettendo il proprio corpo in ogni scatto, in un rapporto identitario con la propria arte. Le due si incontrano una mattina, a Parigi, ai colloqui di selezione per i candidati borsisti dell’Accademia di Francia a Roma. In palio, un anno di residenza a Villa Medici, per sviluppare un progetto artistico. Passano entrambe, il va sans dire.

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Due donne e la villa. L’orizzonte drammaturgico del primo lungometraggio di Caroline Deruas si gioca tutto in questo perimetro. Da una parte, il rapporto tra le due: bloccata e repressa Camille, passionaria e ribelle Axel. La loro amicizia è la proiezione di un’aspirazione identitaria. Axel incarna ciò che Camille non è e vorrebbe essere: l’impeto creativo l’emancipazione sessuale, la ribellione alla norma sociale. Dico ‘incarna’, ma Deruas sfuma lo statuto diegetico del personaggio, e a più riprese sembra suggerire che Axel sia una proiezione, un fantasma: ma resta – fino all’ultimo – un suggerimento ambiguo.

Clotilde Hesme Jenna Thiam L'indomptéeDall’altro lato, la villa. Deruas, come le sue protagoniste, ha passato un anno a Villa Medici: il film è nato in quelle stanze, tra quelle statue, in quelli che furono gli Horti Luculliani prima e la residenza del Cardinale de’ Medici poi. E in quello spazio, nel film, si aggirano non solo le protagoniste, ma fantasmi, proiezioni erotiche di un immaginario che fa della villa un palcoscenico. Figurazioni drammatiche, vere e proprie coreografie fantasmatiche del desiderio, si aprono ai margini della diegesi principale del film.

Pietro Bianchi suggerisce nel suo articolo, a ragione, una lettura lacaniana del film, sottolineando la chiave identitaria del rapporto tra le protagoniste. La scissione tra parola e immagine articolerebbe, in questo senso, la ricerca di una forma del sé a cavallo tra fantasia e realtà.

Il problema – però – è che questa ricerca mi sembra tradire, prima di tutto, un problema di sguardo, di rapporto (culturale) con la forma. Ha dichiarato Deruas che esiste, oggi, un urgente bisogno di bellezza, di immaginario. Sarà: ma sorge il sospetto questo bisogno sia viziato in partenza da un ombra di orientalismo, da una concezione del bello (classico) come rifugio altro per un soggetto in fuga dalla storia.

L’indomptée fa mostra di essere consapevole di questa possibile deriva – con scene di guerriglia urbana al telegiornale, con l’ombra della crisi economica – ma rimane, al fondo, una pulsione antistorica difficile da digerire. C’è da dire del resto che la regista non fa mistero della natura privata e quasi autoanalitica del progetto: l’ovvio autobiografismo, la genesi del progetto a villa Medici, e financo il pastiche di stili – con soluzioni che alternano lirismo e filtri colorati da cinema pulp – richiamano l’attenzione sulla forza affermativa del film, sulla sua natura di manifesto. E anche a questo servono i manifesti: ridisegnare il mondo, per dare corpo alla fantasia.

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