#Locarno70 – Conversazione con Todd Haynes

Premiato con il Pardo d’onore, il regista Todd Haynes ripercorre la propria carriera, quasi trentennale, arricchendo l’esperienza della retrospettiva a lui dedicata.

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Ogni volta che lavoro ad un film, mi sento ancora uno studente del mezzo”. Todd Haynes, premiato con il Pardo d’onore, fa ritorno nella patria del suo cinema, un Festival, quello di Locarno, cui affidò le sorti del suo primo lungometraggio, Poison, pesantamente screditato negli States, malgrado la partecipazione al Sundance del ’91. “C’era una disputa sui prodotti che meritassero o meno il finanziamento pubblico. Riguardava, irrimediabilmente, i contenuti omosessuali. Molti ricevevano fondi per poi vederseli negati. Dopo il premio al Sundance, ci fu un dibattito acceso. Ci furono proiezioni private per senatori e uomini del congresso. Un giornale mi definì il “Fellini della fellatio”. Mi chiesero di apparire in tv, opponendomi al partito repubblicano che lo osteggiava. Ma c’è da dire che il film trattava di un panico esistente negli USA, dopo le rivendicazioni della comunità gay e il diffondersi dell’AIDS”.

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“Sto guardando molti film di Hitchcock per il mio prossimo progetto”. Haynes è ben noto agli addetti ai lavori, nonchè all’universo cinefilo, come regista non solo influente nel panorama contemporaneo, ma pure profondamente influenzato dagli annali cinematografici di grandi maestri. “Se penso a film o autori che hanno segnato la mia educazione, mi viene in mente La folla, di King Vidor, un affresco di una New York soffocata dall’ambizione, un’ambizione cieca, una delusione dopo l’altra; L’appartamento, di Billy Wilder, George Cukor, e naturalmente Douglas Sirk. Tuttavia, mi interessa molto ricevere l’influenza di chi è stato influenzato, ad esempio Fassbinder con Sirk”.

Oltre all’abbondanza di riconoscimenti tecnici, nonché artistici, e che lo riguardano in prima persona, il cinema di Haynes è impensabile se deprivato di magnifici talenti attoriali: da Julianne Moore a Cate Blanchett, da Christian Bale a Heath Ledger…Non ho un

gif critica 2 metodo di ricerca per gli attori. Scelgo film per film, caso per caso. Mi viene in mente Safe (1995), un’idea sceneggiata anni prima e che aveva bisogno di un’attrice in ascesa per ottenere i finanziamenti. Non aveva contenuti gay, uomini sexy, ma comunque riguardava l’AIDS, sebbene imboccasse una strada diversa per trattare la malattia. Volevo la casalinga perfetta, quella che incontri ad una serata e il giorno dopo dimentichi, come se non l’avessi mai vista; un ruolo certamente impegnativo. Avevo notato Julianne in un corto di Altman ed ero rimasto di stucco. Venne da me per una lettura, lesse qualche battuta e fui stupito dalla specificità che assunse: voce sottile, accento della California del Sud, un’idea, la mia, concettualizzata, che improvvisamente diventatava materia. Credo che Safe sia un film ancora rilevante ed è impossibile immaginarlo senza Julianne”.

Oltre alla passione per il melodramma, Far from Heaven e Carol, Haynes si è confrontato con biografie celebri e controverse, basti pensare al particolarissimo lavoro di I am not there e alla consegna, senza dubbio fittizia, eppure impregnata di archivismo, di realtà quasi prepotente, di Velvet Goldmine: “Il discorso fatto per Julianne vale anche per Cate Blanchett. Il suo è il Dylan del ’66, un uomo che, forse, prendeva anfetamine, pelle e ossa, scattante, sfuggente, androgino; un’immagine che sconvolse molti dei suoi devoti, alcuni dei quali lo definirino “Giuda”. Pensai ad una donna, una donna forte, una figura potente. La lista delle candidate era piuttosto breve. Cate era spaventata, aveva una grande stima per Dylan e voleva rendergli giustizia. Iniziai ad uscire con lei, a mostrarle qualche clip e alla fine si convinse. Per Velvet Goldmine feci moltissime ricerche, ma furono indagini su quel particolare periodo, anni di “costruzione”, un’idea già messa in atto da Andy Warhol. Pensiamo a David Bowie e a come, letteralmente, costruì la propria stella. Assunse il bagaglio della teatralità, della spettacolarità, mischiandola ai fondamenti di Warhol. All’epoca c’erano due correnti, la costruzione appunto e l’ideologia hippie e su entrambe le coste si sviluppavano indipendentemente“.

Sia con Blanchett che con Moore, nei due film sopracitati, Haynes sfrutta la portata del genere nell’immaginario spettatoriale per creare il proprio visual book di riferimenti: “Se penso al vetro, alla funzionalità della finestra in un film come Carol, la prima idea è che la separazione dei personaggi accresce il desiderio del pubblico, quella caratteristica intrinseca al sentimento di non voler mai essere soddisfatto. Ciò che vediamo è la proiezione, l’immagine capovolta dall’occhio dell’amato o dell’amante, la visione limitata da uno dei due sguardi.”

 

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