#Locarno71 – Coincoin et les z’inhumains, di Bruno Dumont

Arriva a Locarno la seconda stagione di P’tit Quinquin: Privato dei valori di riferimento culturali, religiosi, sociali, lo schema di comportamento di questo cinema prende una direzione aleatoria

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Presentata in esclusiva alla 71 edizione del Festival del Cinema di Locarno, Coincoin et les z’inhumains è la seconda stagione di P’tit Quinquinla miniserie diretta nel 2014 dal regista francesce Bruno Dumont. Utilizzando gli stessi attori della prima stagione, buona parte dei quali erano dei bambini ed adesso sono cresciuti, il regista ha avuto l’opportunità di catturarne i cambiamenti, anche molto marcati in alcuni casi, che sono avvenuti in loro, per lasciare intatto quel carattere demenziale che rappresenta i suoi ultimi lavori, che cercano una comicità che deriva soprattutto dall’esibizione del buffo. Nella crescita dei personaggi c’è una complicazione dal punto di vista psicologico, un atteggiamento diverso, forse meno immaturo e più prevedibile ma comunque ricco di mille sfaccettature. Dumont resta fedele alla scelta di attori non sempre professionisti, con il comune denominatore di avere sullo schermo una resa molto potente dei tratti fisici.

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La struttura della serie non è granché complicata, una misteriosa sostanza aliena, un magma nerastro (che richiama alla mente il petrolio, seppur solidificato), cade dal cielo inaspettatamente su campi, animali e persone. L’ispettore della gendarmeria Van Der Weyden è chiamato ad indagare insieme al fido assistente, nonché pilota e stuntman, Carpentier, ed i due approfittano dei loro scambi di battute per disquisire filosoficamente sul senso delle cose, attraverso dei discorsi apparentemente sciocchi o almeno innocui.

Oltre a provocare un naturale ribrezzo, questo elemento extraterrestre può rilasciare una luminescenza volatile che infilandosi all’interno degli esseri umani aziona uno sdoppiamento o forse una duplicazione. Completano il quadro Coin Coin che continua insieme al suo amico Le Gros a scorazzare per la Cote D’Opale, adesso a bordo di una Panda, al posto del motorino sul quale sfrecciava nei precedenti episodi, su delle strettissime strade di campagna, rigorosamente a velocità supersonica. Eve, la sua fidanzata, è diventata lesbica e l’ha abbandonato. Qui grossomodo finisce la parte intellegibile ed inizia il discorso allegorico e metaforico, che in quanto tale moltiplica le interpretazioni di senso a livello esponenziale.

Lo sviluppo di un clone, fra i tanti precedenti impossibile non ricordare almeno L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, dopo aver inghiottito qualcosa di luminoso potrebbe associarsi agli avatar digitali, all’identità elettronica che ormai tutti possediamo, che si materializza ed eredita i nostri connotati svuotati di coscienza critica. Congetture, non può essere altrimenti, se, per sua stessa ammissione, Dumont predilige quando gira assecondare la sua curiosità verso l’incomprensibile, cosa che rende la decifrazione dei segni di cui è disseminata la sua opera sicuramente non univoca, quanto piuttosto propedeutica ad azionare una riflessione e poi un’altra, a cascata. Un gruppo di migranti che vagano senza meta e la presenza sul territorio dei raduni del bloc, un’organizzazione di destra, aprono ad una lettura politica, sollevata con indizi minimi, senza riferimenti diretti, quasi en passant si potrebbe dire. L’attualità ha le sembianze di un incidente, il mondo a rischio d’invasione extraterrestre, di umano ha ormai conservato pochissimo, a partire dalla coordinate spazio-temporali, che sembrano appiattite, per non parlare dei personaggi aridi ed istintivi, che sono immuni all’omologazione e creati per singolo dna, non trasmissibile, e tutti con una certa predisposizione all’eccesso. Privati dei loro valori di riferimento culturali, religiosi, sociali, lo schema di comportamento prende una direzione aleatoria, e la casualità disegna tracciati di sequenze imprevedibili.

La sterzata di Bruno Dumont verso la commedia, un sogno coltivato da lungo tempo per il regista, non è fatta di battute dirette, né di tempi comici precisi, conta piuttosto sulla spinta verso il limite dell’assurdo, sull’esibizione plateale di un gesto o di una parola, ad un ricorso volontario al parossismo in ogni situazione. Resta sicuramente qualcosa di inquietante dentro la realtà distopica immaginata, la conseguenza appunto di un depotenziamento valoriale, per costruire un esclusivo campo di gioco privo di regole, dove i buoni ed i cattivi si confondono, anzi non esistono. Un mondo a parte, piccolo, popolato da pochissima gente, e qui la soluzione dell’enigma potrebbe nascondersi semplicemente nei tanti paesini di provincia presenti in Francia e nel resto d’Europa, dove la paura o le novità hanno la stessa presa sugli abitanti e la dimensione alienante in un modo distorto di percepire la realtà. L’autore riesce sicuramente nel suo intento, porta ancora una volta l’insolito alla ribalta alla ricerca di forme espressive nuove ed interessanti, infetta la serialità televisiva di elementi cinematografici importanti, lasciandole probabilmente solo la struttura episodica, e pur spostandosi ad un livello altissimo di comunicazione, o forse proprio per effetto di questo, suscita delle risate che non sono unicamente figlie dell’isteria.

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