#Locarno71 – Frammenti di Piazza Grande

Quattro titoli presentati nella sezione Piazza Grande del Locarno Festival 2018: The Equalizer 2 di Antoine Fuqua, Blaze di Ethan Hawke, I feel good di Delépine e Kervern, e Ruben Brandt, collector

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A Locarno per la proiezione in Piazza Grande, quella che raccoglie il maggior numero di visitatori, accanto ai titoli mainstream sono passati lavori più selettivi, con un equilibrio da ricercare nella composizione di un programma quanto più globale possibile, dei generi più diversi, per accontentare quanto più possibile la platea. Tra i nomi più attesi c’erano sicuramente i due registi statunitensi Antoine Fuqua, con il sequel, anche se lui non ama definirlo tale, di The Equalizer ed Ethan Hawke che porta sul grande schermo un film ispirato alla vita di Blaze Foley.

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Protagonista di The Equalizer 2 – Senza perdono è ancora una volta Denzel Washington nei panni di Robert McCall, un ex-agente della Cia motivato da buoni propositi, ed indignato da ingiustizie e soprusi, decide di diventare una sorta di giustiziere. Antoine Fuqua pur restando naturalmente fedele ai parametri del film precedente, trascinandosi dietro personaggi e caratteri, gira con l’idea in testa di fare qualcosa di distinto, di autosufficiente.

Tra i generi considerati dalla critica polverosa meno nobili nell’universo cinematografico, per l’action, in The Equalizer 2, questo pregiudizio mostra tutta la sua incoerenza, vista la straordinaria qualità delle riprese, la fotografia coinvolgente ed una sceneggiatura ad orologeria, che è attenta ad ogni minimo particolare.

Se limiti ci sono, questi possono derivare semmai da chi preferisce eroi meno inflessibili, se vogliamo più borderline, magari affascinati o costretti a qualcosa di estremo, quando il problema invece di McCall è collegato ad un senso di colpa, per qualcosa che pensa avrebbe potuto evitare.

Blaze di Ethan Hawke, con un soggetto tratto dalla vita di Blaze Foley, semisconosciuto cantante country, è il racconto di un uomo che al destino di una stella, la cui luce man mano si disperde, avrebbe preferito quello di una leggenda che entra direttamente nella storia. Con un cast composto in parte da veri musicisti, che con Foley avevano condiviso un pezzo di strada, l’effetto di autenticità che si respira è molto forte, come sono forti i valori che le immagini riescono a trasmettere. Nella marginalità dove sceglie di essere ridotto, trascurando la ricerca di ricchezze superflue alla causa, sostituendo all’ostentazione di convenienza un atteggiamento verso la vita spontaneo, meno ipocrita e più gratificante, Blaze vive letteralmente per la musica, assecondato da sua moglie Sybil Rose. È un film toccante, che ripercorre alcuni dei momenti della vita del cantante attraverso le sue canzoni, le sue amicizie che si serve di una fotografia straordinaria firmata da Steve Cosens.

Al genere commedia, di provenienza francese, è toccato invece l’onore di essere il film di chiusura, chiudendo il cerchio iniziato con un titolo americano, Liberty di Leo McCarey, cui il festival ha dedicato una retrospettiva.

Blaze

I Fell Good di Gustave Kervern e Benoît Delépine è una commedia genuinamente anarchica in linea con la produzione dei due artisti, con un protagonista che è una celebrità del comedy system d’oltralpe, Jean Dujardin, che interpreta Jacques, un fannullone con l’ossessione di diventare ricco. Crede di poterlo fare approfittando di sua sorella Monique, che dirige una comunità Emmaus, un centro di solidarietà fondato da Abbé Pierre per accogliere poveri e senzatetto, e degli ospiti della struttura.

Il film sfugge alle regole della comicità classica e si prefigge di veicolare dei messaggi importanti: che l’essenziale è da cercare dentro qualcosa di diverso dalla notorietà e dal lusso, che la mancanza di ambizione invece di rappresentare un limite può diventare una risorsa, che gli schemi disegnati per alcuni e diffusi in maniera capillare come modelli da imitare non sono adatti a tutti, anzi. I feel good si serve del ridicolo, del grottesco, e partendo dalle dissonanze formali sviluppa delle situazioni comiche che veicolano interrogativi e visioni alternative della vita.

Psicoanalisi, giallo, arte gli ingredienti che Milorad Krstic ha utilizzato per realizzare Ruben Brandt, collector, un originale ed avvincente film d’animazione. La storia è quella di un’ossessione, quella del protagonista, Ruben Brandt appunto, un celebre psicoterapeuta che per avere la meglio sui suoi incubi, le sue ossessioni ricorrenti di cui è malato, deve rubare delle famosissime opere d’arte da musei sparsi in giro per il mondo, insieme ad una compagnia molto sui generis composta dai suoi pazienti, tutti dotati di capacità particolari e anomalie.

I feel good

Sulle tracce della banda si muove l’ispettore Mike Kowalski, ed i furti e l’indagine sono la linea di partenza per inseguimenti e fughe spettacolari, impreziosite da uno stile del disegno animato che cambia pelle in continuazione, tutto ad un ritmo vortiginoso, con una colonna sonora di primissimo livello, basti dire Creep dei Radiohead, per un effetto finale di grande effetto visivo.

Pochissimi i dialoghi, e non se ne sente certamente la mancanza, Krstic si diverte ad esplorare tra le diverse epoche pittoriche, da Botticelli a Manet, passando per Hopper e Gauguin, permettendosi anche il lusso di giocare con la citazione filmografica che abbonda e diventa esplicita quando il riferimento è Pulp Fiction di Tarantino.

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