#Locarno71 – Menocchio, di Alberto Fasulo

Giunto al quarto film, Fasulo spreme, sottrae, sintetizza rossellinianamente solo ciò che è necessario, dando vita a un immaginario storico da cui sarà molto difficile liberarsi. In Concorso

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“Nel principio questo mondo era niente et dall’acqua del mare fu batuto come una spiuma et si coagulò come un formaggio, dal quale nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorno angeli, delli quali il più potente et sapiente fu Iddio”

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Domenico Scandella, detto Menocchio

Quando nel 1976 usciva Il formaggio e i vermi, saggio dello storico modernista Carlo Ginzburg, la storiografia italiana subì una specie di scarica elettrostatica. Applicando a un caso di studio locale la metodologia introdotta dalla scuola francese delle Annales, si sperimentava per la prima volta la possibilità di fare storia in modo alternativo a quello dominante. La storia dal basso, delle culture popolari, delle classi subalterne iniziava in Italia proprio con Domenico Scandella, detto Menocchio, mugnaio friulano sottoposto a due processi per eresia tra il 1583 e il 1599, protagonista della microstoria di Ginzburg. Al suo quarto lungometraggio, Alberto Fasulo completa idealmente le ricostruzioni processuali de Il formaggio e i vermi attraverso l’edificazione di un immaginario storico, almeno finora, considerato inattuabile.
In Menocchio, presentato in concorso a Locarno 71, il regista friulano riprende fedelmente le vicende di uno dei tanti dimenticati dalla storia, con l’ambizione di conferirgli finalmente un volto. Con il volto rugato di Menocchio inizia e (mai) si conclude la circolarità di una storia di caso resa attuale e universale, simbolo delle classi subalterne che emergono con fatica dalla superficie della storia, metafora di chi lotta quotidianamente per i propri diritti e le libertà negate. Mugnaio singolarmente “acculturato” e semi-analfabeta, Menocchio si libera innanzitutto dalla propria schiavitù grazie al pugno di libri che possiede gelosamente in casa. L’accesso alla cultura e il confronto con la parola scritta permettono al mugnaio di elaborare un pensiero autonomo, rito di passaggio esistenziale da un mondo arcaico in disfacimento all’incalzante modernità.
La stampa, la scrittura, ma anche la disseminazione e la dispersione delle idee riformiste nel mondo contadino aiutano Menocchio, per la prima volta, a dubitare. Contro la paura e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla modernità, la possibilità di mettere in dubbio la verità, o quantomeno di illuminarla attraverso la pratica del pensiero critico, diventa necessità per la sopravvivenza. Per gli inquisitori l’esercizio del dubbio è eresia, costringono Menocchio a difendersi di fronte a un tribunale, a rispondere a domande insistenti, a brutali torture fisiche e psicologiche, a vivere al buio di una cella sotterranea, dove le sue rughe, inquadrate nei dettagli dei solchi tracciati, vengono illuminate da una fiammella, il dubbio che lo tiene in vita. Dio è ovunque, ripete Menocchio: nell’aria, nell’acqua, nel formaggio da cui nascono i vermi — e dunque anche in quelli. Il dubbio, tuttavia, rischia di trasformarsi in ulteriore credo ideologico, di generare una cosmogonia popolare, pretesto per condurre una guerra solitaria e suicida contro il potere; lasciato solo dai suoi compagni, convinto dal figlio e della suo carceriere, il mugnaio decide fatalmente di abiurare.

La macchina a mano di Fasulo segue Menocchio per tutto il racconto, gira intorno rimanendogli ancorata al corpo, inquadrando spesso i dettagli del suo volto, prima illuminati dalla fiammella del dubbio, poi svelati dall’evidenza della luce solare. Lo sguardo ibrido del regista di Tir, costantemente in bilico tra cinema di finzione e approccio documentario, si manifesta anche nel suo film più oggettivamene “costruito”, ancora una volta alla ricerca di un possibile “reale”. Il contesto è sfocato, lasciato volutamente sullo sfondo, perduto nella spasmodica indagine nell’animo di un mugnaio: la sconvolgente sequenza onirica che precede l’abiura finale è un viaggio nel lato oscuro della mente umana, solo e unico spazio di manovra concesso all’immaginazione del suo protagonista.
In questa continua ricerca, il racconto termina volutamente sulla soglia del reale, di fronte all’abiura.
Dal saggio di Ginzburg e dalle didascalie finali sappiamo che Menocchio sarà condannato al carcere a vita, sottoposto a un secondo processo alcuni anni dopo, nuovamente condannato, stavolta a morte. Fasulo, tuttavia, non è interessato a mostrare nulla di tutto ciò: spreme, sottrae, sintetizza rossellinianamente solo ciò che è necessario, non limitando il suo cinema a una mera operazione di accompagnamento, documentazione o illustrazione della storia. Sceglie, piuttosto, di dare vita a un immaginario storico da cui sarà molto difficile liberarsi — almeno quando, da oggi in poi, penseremo a uno dei tanti Menocchio della storia (o del reale).

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