#Locarno71 – Menocchio. L’eresia di Alberto Fasulo

Presentato in concorso alla 71 edizione del Festival di Cannes Menocchio, di Alberto Fasulo, che ripercorre le gesta di Domenico Scandella un semplice mugnaio accusato dall’inquisizione di eresia.

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Per parlare di “eresia” al cinema ci sono alcuni riferimenti imprescindibili, immagini e soprattutto nomi che indelebilmente hanno marchiato il tema come quelli di Dreyer, probabilmente insuperabile, e Bresson. Alberto Fasulo quei film insieme ai collaboratori naturalmente li ha guardati, per assorbirne qualcosa e per comprenderne i metodi di approccio. Lasciando però poi che ha guidarlo fosse la sua stessa esperienza, diventata corposa al traguardo del quarto lungometraggio. Un cinema che cambia e si evolve, restando dentro un argine abbastanza rigido, quello di raccontare in profondità il territorio, ed è perfetto a tal riguardo affondare la ricerca di uno dei personaggi il cui spirito è sempre presente nel Friuli, quel mugnaio impertinente che osava sfidare l’autorità sacra della chiesa, e sul quale esiste una bibliografia corposa, consultata meticolosamente prima e durante la scrittura del film. Racconta il regista ai giornalisti:

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“Questo film nasce dal desiderio di mettere in luce i valori di cui questo mugnaio si faceva portatore, un film per lottare ed essere sinceri con sè stessi. Ha un’evidenza storica, ma l’intenzione è quella di superarla. La sua attualità la possiamo riscontrare facilmente considerando quanto noi stessi siamo vittime di compiacimento. C’è bisogno di ricollocarsi tra di noi, di rimettere al centro l’importanza di guardarsi. La comunità in questo è responsabile, come gruppo abbiamo l’obbligo di ascoltare le persone e di difenderle, se non succede c’è un problema, salta via qual patto che li unisce. Sentivo il bisogno di raccontare lo sguardo di chi sta ascoltando”.

Fasulo oltre che come regista per il film è stato impegnato come autore del soggetto, responsabile della fotografia e finanche operatore. Menocchio ha un taglio molto autoriale, che dell’uso della luce fa uno dei suoi punti di forza, pieno com’è di ombre, oscurità, chiaroscuri che si addensano sul protagonista, vissuto in un periodo cruciale destinato a cambiare per sempre il volto dell’Europa e del mondo. L’universo valoriale di cui diventa portatore è quello del popolo, distinto in maniera netta da nobili e prelati, l’aristocrazia divisa dalla plebaglia con un’operazione di riconoscimento che parte dal linguaggio, con l’utilizzo alternato dalle varie declinazioni del dialetto friulano, con piena libertà degli attori di adoperare quello più consono, ed il latino per le classi sociale privilegiate.

Un cinema che insiste sui primi piani, sul volto scavato dalla sofferenza di Domenico Scandella, e su quelli dei torturatori, rigorosi ed asciutti nel dipingere il ritratto della crudeltà. L’uso promiscuo di figure professionali ed amatoriali è un’altra delle caratteristiche forti del film, lo stesso Marcello Martini (che interpreta il protagonista) non è un attore ma era impiegato alla sorveglianza delle dighe. “Mi sono occupato personalmente del cast” dice Fasulo, “ed a nessuno di loro ho dato un copione”.

La trama di Menocchio allinea i sospetti, l’arresto, la detenzione ed il processo, con una meticolosa attenzione alla verità storica ed agli atti che ne provano il valore. Le dispute teologiche trovano infatti pieno riscontro nelle diatribe che all’epoca riempivano gli incartamenti e le preoccupazioni dei prelati (tutti con una nutrita schiera di spie conniventi) nel sostenere i capi d’accusa. Si percepisce nelle immagini quel senso di impotenza di quando si ci sente accerchiati, letteralmente, e privati degli affetti, per essere tradotti in una cella con l’unica compagnia delle tenebre. E quanto di ipocrita ci sia nell’offrire una via d’uscita nell’abiura, se decidere altrimenti significa accettare di morire. Non manca, perfetto nelle atmosfere ricreate, un lato mistico, pieno di figure misteriose, spettri da attribuire alla paura, maschere della follia che albergano nei recessi, nelle zone buie, figlie del turbamento e dell’angoscia. L’incubo diabolico nascosto negli occhi maliziosi di chi guarda, e il cui fine accusatorio riesce a creare dei fantasmi che altrimenti sarebbero dimenticati nelle loro indifferenti dimore.

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