#Locarno75 – Incontro con Laurie Anderson

L’artista statunitense si è raccontata aprendo il proprio album dei ricordi e poi ha parlato del suo rapporto con John Cage e della sua dimensione artistica prima di soffermarsi sul presente.

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L’incontro di Laurie Anderson con il pubblico del Locarno Film Festival, dove è stata invitata per ricevere il Vision Award Ticinomoda, si apre con un’immersione nella memoria, l’infanzia vissuta a Chicago e poi il trasferimento a New York, per inserirsi in un ambiente più aperto e dinamico, nel quale sembrava tutto potesse succedere. Credo che i miei primi ricordi siano delle luci che vedevo nel cortile davanti casa, questo cielo così chiaro a Chicago. Dopo la guerra ho il ricordo di aver pianto tanto. Uno dei miei zii era tornato dal fronte e soffriva di uno stress post traumatico. Viveva nella soffitta e urlava tutto il tempo. Ci siamo abituati, qualcosa gli era successo in Francia. Mi convinsi che la Francia fosse un posto pericoloso. Poi ha smesso di piangere, si è creata una famiglia, ed è stato importante per tutti noi. Da Chicago poi ho deciso di andare a New York, la prima città degli States, che mi interessava molto per questo atteggiamento paritario che dava l’impressione di accettare tutti”.

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Laurie Anderson ammette di essere una solitaria, ma trova comunque piacere a lavorare con gli altri. Nei suoi tour infatti cerca di ricreare un ambiente familiare, composto stranamente di otto persone, un numero che per lei è quanto di più vicino al concetto di famiglia. “La mia di famiglia era ricca, aveva i mezzi. Si dice che che le persone ricche non sono più felici, perché vogliono sempre di più. Io mi sono detta che non potevo fare quella vita. Da piccola sulla parete avevamo questa cartina che riproduceva gli Stati Uniti al centro del mondo, tra i due estremi rappresentati da due isole, la Gran Bretagna ed il Giappone. Osservandola, ci sembrava di aver capito tutto il mondo guardando queste due forme ai lati. È stata una bella infanzia. Iniziando a lavorare ho cercato di replicare questa felicità con il team. Chi fa i film dovrebbe sapere di cosa parlo. A volte è difficile”.

Dopo l’infanzia il discorso si sposta sul lato artistico, sull’ispirazione e sul bisogno di trovare dei maestri. Uno dei suoi insegnanti è stato John Cage, famosissimo compositore e teorico statunitense. “Ho avuto tanti maestri, John Cage è stato uno di loro. Abbiamo passato molto tempo assieme. Quello che mi piaceva di lui era che sorrideva sempre. Le persone avanti negli anni sono spesso tristi e depresse. Lui non era così, ed un giorno gli chiesi quale era il suo segreto. Domande del genere non andrebbero fatte.. Parlavamo di tante cose. Abbiamo avuto molte discussioni sul progresso e l’evoluzione, e se la traiettoria del mondo sia orientata verso l’alto o verso il basso. Un cavallo moderno può dirsi più veloce e più forte di un cavallo antico? Certo adesso viviamo molto di più. Dopo aver parlato molto, ha affermato che il mondo stava migliorando. Sembrava davvero fiducioso, anche se attorno avevamo prove evidenti del contrario. La storia dell’evoluzione dice che stiamo salendo e diventando più complessi. Lui mi dava ottimi consigli, forse il migliore è stato quello di fare il lavoro al mio peggio, un modo diverso di comprendere le regole e romperle, un esercizio di libertà. Una volta ho suonato dei quartetti della sua serie numerata. Io non credo nei fantasmi, anche se ne ho visti tre. Mentre suonavo lui era lì, poi è svanito. La musica lavora su frequenze diverse, molto interessanti. Io cerco insegnanti, cerco di chiedere, fare domande, trovare l’empatia. Questa è una frequenza che elettronicamente funziona poco, mentre di persona di ricevono delle vibrazioni, si ottiene un coinvolgimento emotivo. Uno dei problemi causati dalla pandemia, è la perdita di queste connessioni, e dobbiamo ringraziare i festival come questo che promuovono questi incontri”.

L’album dei ricordi si apre quindi al settore dove la sua impronta è più marcata, cioè il campo musicale, gli esordi caratterizzati da una forte componente di indipendenza e voglia di libertà, per sperimentare e rivendicare il bisogno di esprimersi senza vincoli di sorta, in un periodo di forte cambiamento, soprattutto a livello politico ed ideologico. “Nel mio primo gruppo, la Fast Food Band nessuno aveva mai fatto musica e improvvisavamo. Big Science non doveva essere un disco. All’epoca scrivevo brani per molti eventi, era un momento politico importante. Non mi interessava scrivere un album. C’erano dei produttori discografici che mi chiedevano un disco pop, ed io ho risposto di no. Ero davvero snob! C’era questo aspetto di comunità e democrazia, ci aiutavamo a vicenda, eravamo un gruppo. Tendo ad idealizzare quel periodo, ma non troppo. Ho ricevuto una borsa di studio ed ho creato questo O Superman. La gente mi scriveva ed io glielo spedivo per posta. Era bello questo aspetto non pianificato, non intenzionale, non mi sentivo all’avanguardia. Poi mi ha chiamato la Warner Bros e ho firmato un contratto per 8 dischi. Mi piacevano, erano amanti della musica. Alcuni invece non erano simpatici, si sedevano in fondo ad impartire ordini piuttosto stupidi. Spesso erano annoiati e si stancavano presto”. Il suo pezzo di esordio per il grande pubblico, O Superman, è una preghiera, un inno, un brano sul potere e la giustizia, in un momento storico in cui si stava affermando un ben definito assetto capitalistico sotto il governo Reagan. “Un brano privo di pressione e ambizione. Quando ero una ragazzina ero interessata più al radicalismo politico che all’arte. Soprattutto mi interessava la connessione Tecnologia-Giustizia-Potere, e cercavo delle connessioni in maniera obliqua”.

Passando al contemporaneo, Laurie Anderson esprime tutto il suo timore per la situazione politica attuale, per ribadire come l’impegno civile e l’attenzione per la democrazia non possano mai venire meno, soprattutto dopo i gravissimi fatti avvenuti a Capitol Hill. “L’album di debutto è stato una raccolta di pezzi, e Sister whit Transistor è la mia storia. Sono davvero grata che questo film sia stato fatto. Dietro la musica elettronica c’è un mondo enorme che nessuno conosce. Insieme a Pauline Oliveros stiamo cercando di elaborare delle cose per metterle in relazione a quanto avvenuto il 6 gennaio negli USA, quando i Proud Boys hanno occupato il Campidoglio. Il brutto è che sarebbero pronti a rifarlo, armati fino ai denti. Non ci sono più negli Stati Uniti degli artisti che dicono qualcosa, per paura. La libertà  di pensiero ed espressione mi sta molto a cuore, e faremo degli eventi proprio perchè sentiamo che sono a rischio. È un momento molto importante per gli artisti e tutti i cittadini. Si guarda quello che succede e si prova a raccontare dove si vedono delle energie”.

L’arte può cambiare il mondo? Si chiede da sola. Ma non ha una risposta. Con la pandemia ha cercato di connettersi con il mondo, per comprendere quello che stava accadendo. Ha anche pensato di chiudere soltanto la porta dietro di sé e fare musica, ma non funziona. “Ammiro i giovani che fanno dei progetti low budget, cheap, è così difficile raccogliere denaro. Le storie sono al centro di tutto, è bello che qualcuno decida di raccontarle, magari usando soltanto un telefono”. Dopo aver raccontato di un progetto VR indirizzato ai ragazzi e spiegato il suo grande interesse per questa tecnologia che fa scomparire i corpi in un’esperienza visiva totale, l’artista dedica l’ultima parte dell’incontro al suo approccio creativo, sempre sospeso ed in via di ridefinizione. “Non credo di aver mai davvero finito qualcosa, forse perchè ho paura. Il processo è un flusso”.

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