L’odore del sangue, di Mario Martone

Con "Non ti muovere" e "L'amore ritorna", altro film italiano diviso tra sessualità, malattia e follia. Martone cattura i respiri, le sonorità e vampirizza con incredibile istinto la parola dentro un cinema sin troppo denso per uno sguardo non abituato, dove scorre tanta di quella vita che il cinema non riesce a trattenere, a filmarla tutta.

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Può essere anche una strana coincidenza, ma tre pellicole italiane uscite quasi contemporaneamente sugli schermi sembrano andare alla ricerca di filmare, in modi seppur differenti, le forme di una passionalità, di una lacerazione sentimentale e soprattutto di una sessualità ora selvaggia, ora libera ora opprimente. In questo senso appare piuttosto singolare la vicinanza di L’odore del sangue, altra potente opera estrema del cinema di Martone, a Non ti muovere di Castellitto e L’amore ritorna di Rubini. I protagonisti delle tre opere – Castellitto nel proprio film, Placido in quello di Martone e Bentivoglio in quello di Rubini – hanno entrambi una relazione con una donna molto più giovane di loro ma sono ancora fortemente legati alla propria moglie. Inoltre appaiono come personaggi in continua deambulazione, alla ricerca/fuga dei propri affetti. Placido e Castellitto lo fanno muovendosi nervosamente in spostamenti che hanno più o meno le stesse traiettorie (Placido dall’abitazione ai Parioli a una casa in campagna, Castellitto tra la sua casa e la periferia), mentre Bentivoglio è fisicamente fermo in un letto d’ospedale, ma il suo sguardo è continuamente alla ricerca di altro, di spiragli di fuga non tanto dalla stanza quanto dai personaggi (troupe, amante, padre) che gli stanno attorno). Se Castellitto, nella sua opera irregolare, esagerata, ma anche di coinvolgente adesione, cerca di mostrare la propria disarmonia esistenziale rivedendo i momenti decisivi del proprio recente passato dopo l’incidente in motorino della figlia, se Rubini sembra raccontarsi con una sincerità totalmente aperta, Martone invece entra negli abissi di un’ossessione, mostrandone il lato intimo e violento. 

L’odore del sangue, vede infatti protagonista Carlo (Placido), un giornalista di successo, che convive con Lu’ (Giovanna Giuliani), una ragazza molto più giovane di lui, ma ha ancora un rapporto stretto con la moglie Silvia (Fanny Ardant), con la quale divide ancora l’appartamento ai Parioli. L’apparente equilibrio nella vita dell’uomo si rompe quando viene a sapere che anche Silvia ha una relazione con un ragazzo poco più che ventenne. Lei gli comincia a raccontare particolari intimi sulla loro vita privata, sui loro rapporti sessuali e ad un certo punto gli chiede di non tornare più a Roma. Tratto da un romanzo di Goffredo Parise, scrittore tra i più interessanti della seconda metà del Novecento scomparso nel 1986, che ha collaborato anche per il cinema come sceneggiatore per Mauro Bolognini e Tonino Cervi, L’odore del sangue rappresenta ancora una sorta di thriller metropolitano del cinema di Martone. Se Napoli era al centro di Morte di un matematico napoletano, L’amore molesto e Teatro di guerra, Roma rappresenta invece il principale spazio/set di L’odore del sangue. Una Roma notturna, dispersiva, chiusa nell’oscurità dei colori di Accetta, dove Martone recupera le sue sonorità così come faceva in maniera diretta con i vicoli di Napoli in L’amore molesto. Carlo è un po’ come Delia (Anna Bonaiuto) dell’altro film, personaggio sempre in bilico all’interno di un campo visivo che li trattiene a fatica, segno di un cinema che parte spesso da un testo letterario (oltre a Parise per L’odore del sangue, anche Elena Ferrante per L’amore molesto e, in maniera molto più indiretta, Eschilo con I sette contro Tebe per Teatro di guerra) ma che viene ritrasformato dall’unico cinesta italiano oggi in grado di vampirizzare la parola in maniera così decisiva da essere avvicinato quasi, in questo senso, a Manoel de Oliveira. Martone lascia sentire continuamente la tensione generata dalla presenza di un personaggio che non si vede mai (il giovane amante di Silvia), ma del quale si avverte la presenza sia dalle parole di Silvia,  sia i segni lasciati nei luoghi che ha attraversato come l’abitazione di Carlo. C’è un momento in cui l’uomo telefona a Silvia e lei le dice che si trova in casa da sola. In realtà è in compagnia del suo giovane amante e il suo respiro aggressivo appare sempre come un presagio, come una minaccia. Martone quindi ancora sui luoghi del thriller, ma anche ossessivamente addosso nelle forme di un mélo sporco e brutale, con dentro quelle disperate spinte fassbinderiane, ma anche con una fisicità/sessualità viva, dove la macchina da presa si attacca ai corpi e si sente addosso la pelle, l’anima, di un’opera viva, meno diretta forse di L’amore molesto ma ugualmente coraggiosa. Le ombre nere che calano sulla vita dei protagonisti, sono le ombre di un sipario che cala, ma anche quelle ombre misteriche e kubrickiane di Eyes Wide Shut. Roma diventa così una trappola che i provvisori controcampi (la casa di campagna di Carlo, la Sicilia e Venezia) non riescono a frantumare. Alla fine c’è Carlo davanti il cadavere della moglie all’obitorio. Ancora un personaggio immobilizzato (come Bentivoglio nel letto d’ospedale in L’amore ritorna) o un personaggio davanti un altro personaggio disteso orizzontalmente (Castellitto con la figlia in Non ti muovere). Segni di un cinema della malattia nei primi due che si trasforma in autentico cinema della follia in Martone. Una follia sporca, disturbante, ma dentro un cinema troppo denso per uno sguardo non abituato, dove scorre tanta di quella vita che il cinema non riesce a trattenere, a filmarla tutta.

Durata: 100′

Origine: Italia, 2004

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