L’oro del Reno, di Lorenzo Pullega
L’esordio del regista emiliano è un viaggio lungo le acque del fiume Reno, tra fiabeschi racconti di folklore e incontri fantasmatici. In concorso al Festival di Rotterdam 2025

Un gruppo di giapponesi agghindati da vichinghi solcano le acque del Reno italiano sparando a tutto volume il primo atto del Das Rheingold (L’oro del Reno) di Richard Wagner. Sono una delegazione di melomani provenienti dal conservatorio di Tokyo per celebrare il fiume del loro idolo, ma per un macroscopico errore di calcolo si ritrovano a qualche migliaia di chilometri dalla destinazione teutonica. Con questo incipit paradossale si apre L’oro del Reno, il primo lungometraggio di Lorenzo Pullega. Il giovane regista emiliano prende spunto dall’ambiguità tra i due fiumi “gemelli” per affrontare un viaggio dalla sorgente appenninica alla foce adriatica, raccontando tante piccole storie in un flusso di immagini e suoni senza soluzione di continuità.
Un regista incorporeo – con la voce di Neri Marcorè – riceve l’incarico di celebrare il fiume emiliano, così decide di lasciarsi trasportare dalle sue acque osservando e ascoltando attentamente i personaggi intorno a sé. Si tratta di quell’effimero momento di incertezza in cui il film non si è ancora dispiegato nella mente del regista ed è pronto ad accogliere tutto quello che gli si pone di fronte. Con la sua voce da narratore e il suo sguardo da indagatore, il regista ci accompagna tra personaggi bizzarri e storie del folklore emiliano, tra i frequentatori delle rive del Reno e i racconti di antichi fatti dal sapore antropologico e storico. Ci sono le anziane signore alle prese coi fanghi delle terme, una tribù chiamata Popolo del sole (con Eva Robin’s), i cercatori di oro nella notte e uno strano uomo che si muove nel sottosuolo. Sono proprio le storie più oscure e oniriche quelle che restano impresse nella memoria, come quella dei bambini annegati nel Reno o il Grand Hotel infestato da spettri (o ricordi?) come l’Overlook di Shining. Si passa da sequenze puramente horror o thriller ad alcune scene più vicine alla commedia all’italiana, con quel classico umorismo romagnolo. Il regista lega ognuno di questi episodi con un’atmosfera rarefatta e sospesa nel tempo, tra il fiabesco e il realistico, anche quando si trova a raccontare fatti tragici e realmente accaduti, come le alluvioni del primo Ottocento che causarono la scomparsa del borgo di Durazzo.
L’oro del Reno è una dichiarazione d’amore dell’autore nei confronti della terra in cui è cresciuto, della sua gente e della sua storia. Nei suoi racconti è possibile rintracciare i ricordi e gli incubi dell’infanzia, legati tra loro dallo scorrere del fiume e dagli incontri fantasmatici che il regista vive nel suo viaggio. Spesso gli episodi possono apparire alquanto sconnessi e poco amalgamati tra loro, con l’effetto accidentale di “svegliare” lo spettatore dalla dimensione fiabesca in cui si era magicamente ritrovato. Ma è la natura stessa di questo piccolo e insolito film, capace, nonostante le incertezze, di scovare un tesoro nel luogo più inaspettato.