L’orto americano, di Pupi Avati
Esplicita il viscerale rapporto audiovisivo tra Amore e Orrore. Manca la coesione strutturale di una sceneggiatura che risulta piuttosto sfilacciata e sbrigativa. VENEZIA81. Fuori Concorso.
Dopo il sincero e appassionato ritratto del sommo Poeta (Dante, 2022) e il lucido e malinconico La quattordicesima domenica del tempo ordinario (2023), Pupi Avati decide di confrontarsi, ancora una volta, con il genere che l’ha reso un cineasta di fama internazionale. L’autore bolognese, infatti, torna ad esplorare le capacità espressive dell’horror gotico, omaggiando Mario Bava e altri grandi autori del passato, tra cui Carl Theodor Dreyer e Alfred Hitchcock.
In questo senso, L’orto americano, opera tratta dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati, si pone quasi come un trattato filologico, summa artistica che attraversa ambienti, atmosfere e stilemi tipici del genere. Presentata Fuori Concorso come chiusura dell’81° Mostra del Cinema di Venezia, l’opera di Avati sviluppa una messinscena che esplicita il viscerale rapporto audiovisivo, centrale nel cinema di Avati, tra Amore e Orrore, Storia e Memoria. Da una parte, abbiamo l’amore angelicato (come lo era in Dante) nato dal casuale incontro di sguardi tra un giovane aspirante scrittore (simulacro dello stesso Poeta) e una bellissima soldatessa americana (novella Beatrice), in servizio a Bologna. Dall’altra parte respiriamo l’orrore: quello della Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, con i cadaveri dei giovani soldati inglesi e americani caduti sul campo di battaglia, con i loro corpi mutilati e massacrati, ammassati uno sopra l’altro tra le strade di una terra straniera.
Avati, per la prima volta nella sua carriera, porta in scena il secondo dopoguerra italiano, lavorando sul traumatico stato di salute mentale di un paese devastato dalla guerra, dalla morte e dalla fame. Proprio per questo, la complicata condizione mentale del giovane scrittore protagonista del racconto, interpretato da Filippo Scotti, la cui malattia psichica gli fa pensare di poter dialogare con i propri defunti, si rende metafora dello scollamento di un paese intero e della sua incapacità, nascosta nelle segrete del proprio inconscio, di superare il trauma della Seconda Guerra Mondiale. Il perfetto rifugio da un paese devastato dal conflitto come l’Italia è rappresentato dalle confortanti atmosfere del Midwest americano, dove il ragazzo si trasferisce nella prima parte del racconto per poter scrivere in pace il suo ultimo manoscritto. Proprio da una di queste townhouse, o più precisamente dall’orto di una di queste case, inizierà a sbrogliarsi la matassa intricata di un caso di cronaca nera che collega Italia e Stati Uniti. Da qui, il giovane scrittore partirà per una disperata ricerca dell’amore perduto facendo i conti con l’ineluttabile irruzione dell’orrore e della morte.
Nel film di Avati non mancano certo i colti e precisi riferimenti filologici alla poesia lirica greca di Archiloco e Bacchilide o le immagini che trasudano rispetto e amore incondizionato nei confronti dei propri personaggi, mai ridotti a semplici macchiette. Quello che piuttosto sembra mancare a L’orto americano è la coesione strutturale di una sceneggiatura che risulta piuttosto sfilacciata e sbrigativa, soprattutto nel decisivo passaggio dal contesto americano a quello italiano. Inoltre, alcune scelte narrative piuttosto prevedibili minano la costruzione tensiva del racconto, finendo per smaterializzare e depauperare anche l’innata potenza vitale delle immagini del cinema di Avati, restituendoci un’opera sicuramente onesta nelle intenzioni ma decisamente fiacca e scontata nel suo sviluppo.