L’Osaka museale di John Wick 4 come principio del Cinema del Futuro

Come principio della fine e fine del principio. L’Osaka museale di John Wick inaugura le potenzialità espressive dell’ibrido. Inizia il nostro viaggio attraverso le città del nuovo film di Stahelski

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Per raccontare l’imponenza concettuale delle sequenze di Osaka in John Wick 4 cominciamo dal fare un leggero passo indietro nel tempo con Strasbourg 1518 di Jonathan Glazer. L’ennesima opera perturbante realizzata dal regista di Under the Skin uscita nel pieno della pandemia e liberamente tratta dal surreale episodio di danza isterica che colpì la città francese nel XVI secolo. Lo sguardo sulla faccenda di Glazer ovviamente getta l’attenzione non tanto sull’aperto parallelismo tra il Covid e la singolare malattia che infestò all’epoca i cittadini di Strasburgo, bensì sulle le diverse modalità di esposizione e principalmente di manifestazione della questione. Perché Strasbourg 1518 oltre ad essere un fulgido portale sul contemporaneo sociale lo è anche sulle implicite connessioni tra corpi ed immagini, tutto ciò racchiuso in un’idea di cinema sempre più indirizzata verso un gigantesco ed avveniristico “organico collettivo” in grado di dispiegarsi nelle mutazioni del suo linguaggio. Perchè Glazer racconta la solitudine del movimento come una performance estremamente vicina alla body art, allo sconfinamento del mezzo negli ambienti asettici e stranianti dell’arte contemporanea. Ed è affascinate osservare come dal cinema art house tale riflessione approdi così lucidamente anche in un meccanismo superficialmente più “commerciale” come quello di John Wick.
Già nel precedente capitolo della saga Stahelski ha cominciato a cambiar rotta allontanandosi drasticamente dai toni milleriani dei primi due capitoli, sposando in pieno le contaminazioni del gaming (centrale nelle sequenze parigine) e appunto dell’installazione. E il primo atto ad Osaka del quarto film rivela apertamente la frontiera del cinema ibrido del futuro edificata dalla saga. Rispetto alla realtà similare trascritta da Leitch con Atomica Bionda
e Bullet Train, dove in quest’ultimo la disamina sull’immaginario giapponese è paradossalmente neutralizzata dalla progressione volutamente kitsch delle strutture di genere, John Wick 4 preferisce utilizzare il livello di Osaka per legittimare il proprio sguardo sulla trasformazione dell’immaginario piuttosto che sconfinare in una prevedibile ma pur sempre affascinante fuga sotto i neon di una qualsiasi metropoli del sol levante (tra l’altro già raccontata nelle clamorose e depistanti sequenze iniziali di Parabellum).

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L’approccio di Stahelski durante il primo atto guerrigliero di John Wick 4 va contro ogni previsione. Dilata il tempo, disseziona il ritmo, col senno di entrare nella più pura ed entropica dimensione dello spazio museale. Wick in quel di Osaka non è solo l’ospite d’onore, bensì il principale evento performativo della mostra. I vertiginosi combattenti che coinvolgono il personaggio interpretato da Reeves si connettono con l’istallazione contemporanea, con l’autorialità visiva e concettuale della danza moderna. Dalla fotografia visual art di Dan Lautsen, all’accesa tauromachia del personaggio di Akira, per giungere alla fine nel pezzo forte della mostra, con Wick che a suon di Gun-Fu proclama l’importanza del suo corpo, della sua pelle, come portavoce di un cinema sempre più rivolto a tramutare le varie realtà artistiche che orbitano attorno a sé in un colpo di nunchaku liberato da una teca di vetro. 

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