Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto – Intervista a Livia Giunti e Francesco Andreotti

L’incontro con Livia Giunti e Francesco Andreotti, registi del documentario Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto, ci offre una visione inedita su un’uomo straordinariamente creativo e vitale

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“Dopo che abbiamo offerto alla vita il nostro entusiasmo, la nostra incurante giovinezza, cosa possiamo offrire per sentirci ancora vivi? Il nostro corpo. Il nostro corpo umiliato, forato dalle cannule, vincolato al respiratore. Corpo, limite e confine, che ad ogni risveglio ci colpisce con l’insensatezza di una tragedia senza fine. Il nostro corpo è ciò che possiamo offrire come estrema conseguenza di una legge per la vita. Lottare per una legge che permetta l’eutanasia”. (Piergiorgio Welby)

Sarà presentato questo venerdì al Festival dei Popoli di Firenze il documentario di Livia Giunti e Francesco Andreotti, opera che, come suggerisce il titolo stesso, si mantiene fedele ad un’autorappresentazione fatta da Piergiorgio Welby prima della morte, e lo fa inserendoci nell’universo interiore dell’uomo, tramite un’infinità di scritti inediti, ma anche tramite i suoi dipinti, le sue foto, componendo in tal modo il quadro di un’uomo creativo, colto, appassionato ed amante della vita. Il diritto alla morte è un’istanza suggerita senza inutili eccessi declamativi, utilizzando anzi la sola voce di Welby, offrendogli in tal modo quell’ascolto negatogli per troppi anni. Livia Giunti e Francesco Andreotti rendono oggetti vivi e cangianti i suoi quadri, accompagnandoci in un percorso a ritroso nella sua infanzia e giovinezza, o facendoci ascoltare l’audio lettera inviata all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, le cui parole di esordio risuonano come un monito: “Caro Presidente, scrivo a lei per questo mio grido, che non è disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro paese”.

love is all foto piccoloDa cosa è partito il progetto?

Livia Giunti: Il progetto è partito alla fine del 2006. Stavamo lavorando al documentario sul falco pellegrino insieme ad un gruppo di ornitologi di Roma, quando abbiamo scoperto che Piergiorgio era morto, e che anche lui era un ornitologo, seguiva il sito del gruppo dalla web cam e lo animava con battute, poesie, messaggi. Alla sua morte il suo posto è stato preso dalla moglie Mina, che è andata a battezzare un falchetto appena nato. Con Mina Welby è scattata da subito la confidenza, un feeling immediato fin da quella mattina. Quindi è nato tutto in maniera molto naturale, Mina ha iniziato a mostrarci le opere di Piergiorgio, i video di famiglia.

Francesco Andreotti: I rapporti con Mina sono nati da una richiesta da parte sua, ci ha chiesto di duplicare un numeroso materiale video vhs di Piergiorgio. Per noi è iniziata una fase di ricerca di materiali e visione di materiali. Ci siamo convinti anche osservando i suoi bellissimi quadri, dai colori pastosi meravigliosi, la sua casa era un mondo di immagini ricchissimo. Piergiorgio era una persona divertentissima, volevamo scoprire il suo vissuto al di fuori del telegiornale, ma tirare fuori l’artista, lui era un pozzo di idee. Nel 2007 abbiamo utilizzato parte de materiale per fare una video installazione a Livorno, quello è stato il primo tassello per la nascita di questo documentario: tutto è nato dai quadri, i materiali video più la lettera al Presidente della Repubblica e da lì l’idea si è espansa. Abbiamo anche fatto altre due video installazioni.

Il documentario si focalizza principalmente su Piergiorgio, sono pochissime le testimonianze esterne, era voluto?

Livia Giunti: Questa scommessa artistica è stato il punto di partenza. I materiali di Welby ce lo chiedevano, dovevano essere ricomposti in un mosaico. Lui aveva iniziato a farlo, ma non lo ha concluso perché non ne aveva le forze. Prima di morire si era comprato una videocamera, avrebbe voluto fare un documentario non solo sulla sua situazione, ma anche sulle altre persone che condividevano con lui quella sofferenza. Quindi ci siamo messi al suo servizio, e recuperando quadri scritti e video avevamo un museo nel nostro studio, il materiale era numerosissimo.

Francesco Andreotti: È stato difficile fare scelte drastiche, ma alla fine si è deciso che lui doveva essere l’unica voce, quindi ci è venuta l’idea di tagliare le parti informative, e gli aspetti burocratici legati alle leggi. Abbiamo favorito un film di pancia con lui come protagonista assoluto e abbiamo preso la strada della continua rielaborazione della sua autorappresentazione. Lavorando per anni con i suoi materiali abbiamo scoperto sempre di più, abbiamo saputo talmente tanto che stiamo sviluppando un secondo progetto, un web doc nel quale utilizzeremo i materiali che non sono entrati nel film. La parte sommersa dell’iceberg, così potremo inserire le interviste di Mina, Carla Welby e tanti altri.

L’ossessione per tenerlo in vita da parte delle istituzioni e della chiesa possono essere rappresentative di un terrore inconscio della morte, una non accettazione che la morte faccia parte della vita.

Livia Giunti: Quando Piergiorgio era vivo, i suoi amici “sani” lo andavano a trovare in cerca di conforto, di sollievo. Lui era un uomo molto saggio, aveva un’aurea intorno a sè. Era come un oracolo, tanto che chi non aveva difficoltà fisiche ma altri problemi lo cercava per consigli.

Francesco Andreotti: La sua camera era un finestra sul mondo, tra i venti e i trent’anni ha viaggiato, ha cercato la sua strada anche pericolosamente e negli anni, leggendo e studiando molto ha sviluppato una visione “classica” della vita, come quella dei greci. Considerava la vita e la morte come due dimensioni che convivono. La fine vita per lui andava compresa e accettata, non aveva il tabù della morte, come nella nostra società. Neanche la sua famiglia lo aveva. Nonostante questa consapevolezza, di lui stupiva la vitalità, la voglia di studiare, scrivere. Negli ultimi anni di vita ha studiato le leggi italiane e europee, principalmente quelle europee per tentare di applicarle. In lui c’era una maturità che si riscontra già da quando era bambino, un’idea di vita e morte in comunicazione, due dimensioni già presenti in tutti gli stadi dell’esistenza. Era molto critico nei confronti di un’evoluzione della scienza che negava la natura, l’evolversi naturale delle cose. Aveva anche scritto un racconto, preso dalla sua esperienza vissuta (aveva passato quaranta giorni in rianimazione) sulle macchine dell’ospedale che si ribellano e decidono loro chi tenere in vita e chi non tenere in vita. Lui aveva una visione opposta a quella della scienza, era una visione umana e naturale.

La lettera scritta per il nipote, Francesco Lioce, ci mostra la lucidità di un’uomo nei confronti del proprio diritto di scelta: “La scelta è il vivere la vita così come il divenire ce la propone, senza volerla piegare alla nostra volontà di potenza. La scelta è una scelta dionisiaca, che abbraccia la vita e la morte, senza distinzione, senza mistiche dicotomie. L’unica possibilità che ci è data, è quella di evitare di vivere di rimpianti, di sterili corse nel passato, di illusioni. L’oggi deve vederci sempre pronti a cogliere il nuovo, l’imprevisto, l’imprevedibile”.

 

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