L'ultima, colossale opera di Darren Aronofsky

Alle prese con quella che dovrebbe essere l'unica “inaffondabile”, il regista statunitense rischia di essere l'artefice dell'eccezione che conferma la regola. In un senso o nell'altro, da Noah ci si aspettava molto. Ebbene, che abbiamo ottenuto.

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Purifica, lava, benedice e battezza. Monda ma soprattutto svuota, l'acqua che d'un colpo estirpò la discendenza di Caino dalla faccia della terra. E avremmo una storia apocalittica, epica, eroica e sofferta, divina e tanto più umana nel suo essere conflittuale, se non fosse che l'arca di Aronofsky emerga a fatica dai flutti. E' una zattera che galleggia a malapena, tenendosi in equilibrio fra cristianesimo, new-age e ammiccamenti al fantasy. Non stanca – questo no – ma neanche entusiasma. E francamente ci si ritrova un po' delusi considerando che, almeno teoricamente, Noah avrebbe dovuto essere la summa artistica del cinema di Darren. Un diluvio di dollari (circa centotrenta milioni) a dimostrazion del fatto che non sempre un grande budget porta a un grande film.

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La storia non avrebbe neanche bisogno di essere riassunta, se non fosse che il regista ha inserito personaggi pressoché ignoti alla tradizione biblica (vedi gli angeli caduti e mutati in giganti di pietra) nonché caratteri superflui volti ad una modernizzazione non necessaria della vicenda. Noè (Russell Crowe), tanto per dirne una, par essere il primo patriarca del veganismo. Diffida e non comprende l'immonda stirpe di Caino, carica di violenza e colpevole d'aver posto fine alla vita di suo padre Lamech, cosicché vive in disparte, nomade e accompagnato dai membri della propria famiglia: sua moglie Naamah (Jennifer Connelly), i suoi tre figli e l'adottiva Ila (Emma Watson), vittima e però superstite della crudeltà degli uomini.

Il plot canonico, nonostante e al di là delle variazioni ad esso apportate, è reso in modo piatto e poco coinvolgente, sia a livello emotivo che strettamente immaginifico. Gli unici picchi, blandi e tuttavia esistenti, possono ricondursi ai momenti più propriamente biblici, quali l'avvento delle coppie all'arca e quello del tanto atteso diluvio. Interessante, anche, la resa delle grida di chi vien condannato all'annegamento, frutto di un probabile tormento nell'irremovibile e sempre più solo Noè… ma poi? La rivelazione è data quasi per scontata e il cast, per quanto altisonante, non riesce toccar le corde dello spettatore (basti pensare a Matusalemme, Anthony Hopkins, che a discapito dell'obiettiva incisività del suo ruolo non comunica nulla più di quanto non farebbe un marginale sidekick). Finanche Tubal-Cain (Ray Winstone) sembra scevro del carisma che invece avrebbe potuto avere colui che tradizionalmente è considerato “il figlio che aromatizzò e ridefinì il mestiere di Caino forgiando armi per assassini”.

 

Di carne al fuoco ce n'è tanta, certo, ma il bilico fra l'impronta autoriale ed hollywoodiana ci lascia storditi, perplessi e disarmati. Ed è detestabile, forse, come sensazione, perché se un film è bello ci si può dir le persone più entusiaste della terra, se è brutto siamo liberi di dare sfogo al nostro risentimento e se è così… beh, non fa che concretizzarsi la più atroce delle possibilità: il lasciar la sala con quel che fu al principio della Genesi. Il Nulla.

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