"L'Ultimo Esorcismo", di Daniel Stamm

the last exorcismDecidere di toccare un argomento come l’esorcismo è sempre una sfida, perciò il compito di Daniel Stamm non era certo fra i più agevoli. L’approccio alla materia è però diverso dai predecessori ed è sicuramente un pregio ma il film, che regge per tre quarti, si perde in un finale apparentemente raffazzonato e incomprensibilmente arzigogolato

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the last exorcism

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Decidere di toccare un argomento come l’esorcismo è sempre una sfida. Perché, inevitabilmente, il paragone istantaneo sarà inevitabile con L’esorcista di William Friedkin, capolavoro che ha tormentato i sogni di generazioni di appassionati di horror. Perché si corre sempre il rischio di sfociare nel ridicolo; spiegare qualcosa di indimostrabile e probabilmente irreale è il vero ostacolo per ogni autore di film dell’orrore.
Perciò  il compito di Daniel Stamm, trentaquattrenne regista tedesco, non era certo fra i più agevoli.
Per raccontare la storia del reverendo Cotton Marcus (Patrick Fabian), Stamm si affida all’ormai rodato (e sempre più in voga) mockumentary, reso famoso dai vari Blair Witch Project, Cloverfield, Rec e, ultimo nato, Paranormal Activity. In crisi di fede, il nostro protagonista si fa seguire da una troupe per documentare un esorcismo, sollecitato da una famiglia di Ivanwood (piccolo paesino della Louisiana). La location non è certamente un caso; la Louisiana è da sempre considerata patria americana del voodoo e del mojo.
L’approccio alla materia è però diverso dai predecessori ed è sicuramente un pregio. L’uomo di Dio infrange i canoni di una figura spesso romanzata e mitizzata, quella dell’esorcista, rivelandosi nient’altro che un meschino truffatore. Sbeffeggiando il bigottismo religioso di una (larga) parte degli Stati Uniti. Particolarmente riuscita la messinscena dell’esorcismo, con trucchi degni di un navigato prestigiatore e un’interpretazione, da parte del reverendo, da vero animale da palcoscenico.
Quando poi la giovane Nell sembra vittima di una reazione post-traumatica, a seguito di una gravidanza estemporanea, piuttosto che di una possessione, lo spettatore viene indirizzato verso un finale razionale e appagante. E’ lì che il film, che regge per tre quarti, si perde in un finale apparentemente raffazzonato e incomprensibilmente arzigogolato. Reso bene lo spiazzamento del reverendo, una volta resosi conto che di posticcio c’erano solo i suoi metodi, convince assai di meno la parte in cui la ragazza mostra i segni evidenti della possessione. Salta lo stereotipo del vocione proveniente dagli inferi, delle lingue morte parlate fluentemente, delle frasi recitate al contrario. Il corpo si contorce in modo innaturale ma lo spettatore non è scioccato né coinvolto emotivamente. Strano perché la protagonista femminile (Ashley Bell) risulta invece molto inquietante nei suoi sguardi agghiaccianti, in contrapposizione alla condotta timida e composta della sua versione non posseduta. E poi, all’improvviso, negli ultimi minuti ci si ritrova di fronte a uno spettacolo spiazzante che nessun elemento o indizio aveva lasciato presagire.
Insomma, le buone premesse e uno svolgimento ben calibrato si sfaldano malamente nel finale. Non solo il paragone con Friedkin risulta quindi improponibile, ma basta fare un salto all’indietro di appena cinque anni e ripescare lo splendido The exorcism of Emily Rose per rendersi conto di come si dovrebbe trattare l’argomento con efficacia.
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