L’uomo nel bosco, di Alain Guiraudie
La versione nera del cinema di Rohmer con i fantasmi di Lang e Hitchcock nella sua sospensione tra desidero e morte, azione e colpa. Di straordinaria ambiguità. Magistrale

Qual è il limite tra uno sguardo e una soggettiva? Si possono confondere? Oppure allinearsi? Anche sull’ambiguità di quella del protagonista Jérémie si muove L’uomo nel bosco, decimo lungometraggio di Alain Guiraudie, già presentato al 77° Festival di Cannes nella sezione Cannes Prémiere e inserito dai Cahiers du Cinéma al primo posto della top 10 del 2024.
Jérémie (Félix Kysyl) raggiunge il villaggio di Saint-Martial, nel sud della Francia, e arriva da Tolosa. È venuto per partecipare al funerale del fornaio per cui ha lavorato in passato. La vedova dell’uomo, Martine (Catherine Frot) gli propone di passare la notte a casa loro nella stanza di suo figlio Vincent (Jean-Baptiste Durand, il regista di Chien de la casse) con cui però non scorre buon sangue. Ma i giorni passano e Jérémie continua a non andare via. La tensione diventa sempre più crescente tra una misteriosa scomparsa, un vicino minaccioso e un prete dal comportamento ambiguo. E la presenza di Jérémie diventa sempre più disturbante.
Già dall’apertura, sullo sguardo della strada del protagonista dalla macchina, L’uomo nel bosco mostra già lo scarto tra percezione e realtà e riesce a mantenersi sul filo di questa straordinaria ambiguità per tutto il film. Si apre con un funerale e nella parte finale c’è un cimitero. La morte corre nel bosco, con i segni, dichiarati dallo stesso regista, di Fritz Lang e Alfred Hitchcock proprio nel rapporto tra l’azione e la colpa. Ma ci sono poi tutte le potenziale visioni di un film apparentemente lineare ma invece stratificato, apparentemente gelido nel filmare la follia ma proprio per questo ancora più inquietante nel modo in cui entra nelle viscere del villaggio, un luogo incantato alla Shyamalan, versione crepuscolare/autunnale del lago di Lo sconosciuto del lago in un cinema ancora magnificamente sospeso tra desiderio e morte. Poi ci sono le possibili proiezioni soggettive. Gli abitanti del villaggio sono reali e o proiezioni oniriche di Jérémie, come nel caso dell’agente che lo interroga vicio al letto mentre dorme? O anche deformazioni che possono rappresentare i suoi demoni? E poi c’è il passato, che ritorna apparentemente anche attraverso un album di fotografie ma che invece è racchiuso lì, in quel bosco, luogo senza uscita alla ‘Coen’ come quello di Crocevia della morte, che diventa trappola ma anche luogo necessario su cui ritornare perché lì ci si può abbandonare anche agli istinti primordiali, di passione o di violenza.
C’è anche Jérémie, anche lui corpo mutante. Sotto questo aspetto è incredibile il volto di Félix Kysyl (vittima? carnefice? entrambe le cose?) in un gioco di dipendenza con Catherine Frot che sembra uscita da un film di Chabrol. Diventa quasi l’attore di una calibrata messinscena teatrale dove ha bisogno di interpretare più personaggi; ha addosso infatti i vestiti del fornaio deceduto e vuole mettersi quelli di Walter. Potrebbe fare tutti i ruoli, come Dénis Lavant con Léos Carax. Ma anche scomparire, essere un fantasma, guardare da fuori questa versione nera di Rohmer – una specie di ‘conte macabre’ – dove le traiettorie dei protagonisti di “Commedie e proverbi” possono essere anche simili ma a muoversi non sono i corpi umani ma gli zombie. Un film in continuo disequilibrio come gran parte dell’opera di Guiraudie, che cerca di dare forma al mistero tra la gravità delle azioni e la banalità del male. Il titolo originale, Miséricorde, forse ne racchiude parte del senso più profondo. Magistrale.
Titolo originale: Miséricorde
Regia: Alain Guiraudie
Interpreti: Félix Kysyl, Catherine Frot, Jean-Baptiste Durand, Jacques Develay, David Ayala, Tatiana Spivakova, Sébastien Faglain, Salomé Lopes, Serge Richard, Elio Lunetta
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 102′
Origine: Francia, 2024