"L'uomo senza sonno", di Brad Anderson

Cinema materico e percettivo, di sospinti soft-focus e impalpabili rarefazioni che incanta come un anello di Moebius nel suo continuo falso movimento di concretarsi e polverizzarsi, svelarsi e occultarsi

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Se un corpo filmico prodigioso come quello di Bob De Niro si era sobbarcato più di 30 chili per la sua mirabile incarnazione del pugile Jake La Motta in Toro scatenato di Scorsese, Christian Bale si è altrettanto impressionantemente riavvicinato a quel peso piuma di quando, ragazzino, girò con Spielberg il magnifico e "misconosciuto" L'impero del sole. Il suo dimagrimento, che lo ha portato a pesare 45 chili e ad assomigliare ad una vittima dell'Olocausto, è già una sfida a quel cinema di (soli) effetti speciali che rischia talvolta di far vacillare la nostra fiducia nelle proprietà del grande schermo. E la sofferta intensità con la quale Bale si dibatte nella depistante vitalità dei suoi incubi "veri più del vero" è la prova di un attore di notevole sensibilità. E' lui l'uomo senza sonno, l'operaio Trevor Reznik che non dorme da un anno, si lava ossessivamente le mani con la candeggina, fissa ammutolito nel lontano bar dell'aereoporto il caffè e la fetta di torta servitagli dalla sua cameriera preferita. Una vita già abbastanza ingrata la sua quando appare dal nulla un nuovo collega, il roccioso Ivan, che lo distrae facendogli provocare un gravissimo incidente sul lavoro, appare e scompare dal suo campo visivo con uguale effetto perseguitante rendendo indecifrabile la sua esistenza. Cinema materico e percettivo, di sospinti soft-focus e impalpabili rarefazioni che incanta come un anello di Moebius nel suo continuo falso movimento di concretarsi e polverizzarsi, svelarsi e occultarsi, innestato nel dipanarsi cristologico di uno spettro illuminato dalla luce pittorica di un Mantegna (la fotografia è di Xavi Giménez, Nameless, Intacto, Darkness e dell'esordiente Charlie Jiminez) e ripreso da un trattenuto Ferrara orientaleggiante. Infatti per l'asettica asciuttezza del linguaggio horrorifico (i post-it sul frigo, la pulizia con lo spazzolino delle scanalature delle piastrelle nel bagno, le foto "cangianti") sembrerebbe quasi una pellicola orientale e per le traiettorie d'impossibile fuga dalla colpa, una cristologia di stampo ferrariano. Anderson lavora con perizia sul già esploratissimo confine tra realtà e apparenza, trovando cadenze polanskiane nello studio del protagonista, mentre il "copia e incolla" hermanniano dell'autore delle musiche Roque Baños va a scapito della sua autorevolezza creativa, ma non del raffinato e avvolgente piacere uditivo di ritrovare armonie di mai sopito fascino. Un film che nella sua programmatica sfocatura e insieme apertura di sensi si permea di una tensione estenuata ma inesorabile, illuminata febbrilmente da una fotografia d'acciaio intensamente e deprimentemente "blue" che si abbatte sul corpo martoriato di Reznik, risucchiato dallo spaesamento, "romantico" punto di non ritorno da strade perdute, forse mai imboccate. Il fulgore ipnotico del film di Anderson risiede oltre gli agganci e i debiti a Polanski, Hitchcock, Lynch, Cronenberg, Wiene, Kafka e Dostoevskij perché ne sfrutta le intuizioni e le suggestioni per un percorso che gode della qualità più importante: l'autonomia artistica, sgorgante da un cinema "di altri" capace di trasfondere in un cinema "altro".

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Titolo originale: "The machinist"
Regia: Brad Anderson
Interpreti: Christian Bale, Jennifer Jason Leigh, Aitana Sánchez-Gijón, John Sharian, Michael Ironside, Anna Massey
Distribuzione: Nexo
Durata: 102'
Origine: Spagna, 2004

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