M.A.S.H., di Robert Altman

La distanza temporale dalla Guerra in Corea permette ad Altman di metaforizzare lo scenario bellico al tempo presente, demolendo attraverso l’ironia l’immagine superomistica dell’eroismo USA. Su Prime

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Ad Hollywood la macchina del cinema ha sempre funzionato come (macro)sistema di interpretazione dei conflitti bellici più sanguinosi e controversi della nazione, nel tentativo di giungere, attraverso gli effetti della ri-mediazione iconica, alla rappresentazione ideale (e idealizzata) di “verità storiche”, che permettessero ai cittadini statunitensi di (ri)elaborare gli eventi nevralgici del proprio paese, sulla scia dell’edulcorazione spettacolare. Nelle narrazioni di propaganda, come in quelle oltranziste, ogni scenario bellico si presta ad una artefazione rappresentativa, che nella sua stratificazione estetica, modula la necessità degli spettatori di rinegoziare i traumi bellici più recenti sul solco di immagini potenti, rassicuranti e/o destabilizzanti. Ed è a partire dall’inversione concettuale di questa parentesi che risulta possibile inquadrare le istanze comunicative di M.A.S.H. Di un film che arriva a raccontare la guerra, solo dopo aver demistificato tutte quelle strategie rappresentative su cui i war movie americani strutturano da sempre le loro narrazioni. Al punto che Altman volge qui lo sguardo al passato bellico della nazione (nel caso specifico alla Guerra in Corea, 1950-1953) per ragionare metaforicamente sui conflitti del (suo) presente.

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In questo senso è la distanza temporale dall’evento a porsi in M.A.S.H come primo elemento di rottura. Diversamente dalle parabole di matrice propagandistica (Operazione Zeta, 1952, Prisoner of War, 1954) e sensazionalistica (Inno di battaglia di Sirk) con cui Hollywood ha raccontato la guerra coreana sin dai suoi primi vagiti, Altman inquadra l’operazione militare pre-Vietnam come scenario ideale di una riflessione critica sull’America anni ’70. All’interno cioè di quella dimensione temporale in cui le azioni belliche del passato assumono significato solo se rapportate alla sfera del contemporaneo. E in un film anti-sistema come M.A.S.H., l’offuscamento della memoria storica dovuto alla lontananza dagli eventi non può che scadere in una narrazione propriamente dissacratoria. Dove la denigrazione ironica di tutto ciò che concerne le politiche rappresentative del cinema guerresco americano – compresa la sua aspirazione alla mitopoiesi – passa attraverso lo stilema della ridicolizzazione espressiva. A cui è soggetta sia la caratterizzazione dei personaggi/antieroi, sia la delineazione iconografica del contesto bellico in cui sono inseriti.

 

In linea con il registro satirico de Il dottor Stranamore, più che con le atmosfere da incubo di Va’ e uccidi, Altman fa della grettezza dei suoi protagonisti lo strumento espressivo primario con cui riflettere l’assurdità dello scenario bellico di riferimento. In questo senso l’accampamento militare in cui si trovano ad agire i personaggi, assume la configurazione di un vero e proprio microcosmo parallelo, al punto da sfidare qualsiasi attitudine alla rappresentazione realistica. Quella carica tragica che ci aspetteremmo di trovare in un ospedale da campo, pieno di corpi sventrati e condizioni igieniche oltre il limite del sudiciume (si pensi a Red Angel di Masumura o a Il duello silenzioso di Kurosawa) lascia qui il posto ad una “realtà” deliberatamente inverosimile, dove a dominare è la raffigurazione grottesca e demistificante di uno scenario di guerra. E sullo sfondo di un orizzonte così paradossale, Altman staglia le storie di personaggi altrettanto farseschi, che puntano a decostruire, con la loro meschinità caratteriale, l’immagine edificante e salvifica dell’eroe di guerra (del cinema) americano.

 

Nel tracciare le insubordinazioni, gli inganni e i comportamenti lascivi dei due chirurghi Benjamin “Occhio di falco” Pierce (Donald Sutherland) e John “Trapper” McIntyre (Elliott Gould), Altman dissolve la costruzione mitopoietica della macchina hollywoodiana, colpevole a suo modo della mitizzazione superomistica del militare a stelle e strisce, per attaccarla nel momento stesso in cui inizia storicamente a mostrare le prime crepe. In questo modo è la protesta antimilitarista dei Seventies ad emergere nel racconto. È il clima di contestazione verso il conflitto vietnamita a compromettere la verosimiglianza scenica della Guerra in Corea, sempre più veicolo di connessione immaginaria tra le ingiustizie passate e le loro reiterazioni nella contemporaneità statunitense. Certo, viste ad oggi, alcune riflessioni di M.A.S.H. possono sembrare anacronistiche. La declassazione dell’omosessualità a impotenza mascolina o il trattamento irrisorio dei personaggi femminili, non troverebbero certamente riscontro nel cinema popolare odierno. Ma quella di cui parla il film è un’altra America. Un’altra Hollywood. Di cui Altman arriva a demolire ogni sua struttura mitizzante. Assorbendo la denuncia nello spazio di una risata.

Titolo originale: M*A*S*H
Regia: Robert Altman
Interpreti: Donald Sutherland, Elliot Gould, Robert Duvall, Tom Skerritt, Sally Kellerman, Roger Bowen, René Auberjonois, David Arkin, Jo Ann Pflug, Gary Burghoff, Fred Williamson, Michael Murphy
Durata: 116′
Origine: USA, 1970

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.8
Sending
Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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