Ma 6-T va crack-er – Un quartiere da schianto, di Jean-François Richet

Nel ’97, Richet metteva in carica quella rabbia delle periferie che di lì a poco sarebbe esplosa rischiando di far saltare la cintura. Straordinario cinema brutalista. Su Amazon Prime

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Quando fu presentato nel 1997 a Cannes, alla Quinzaine des réalisateurs, Ma 6-T va crack-er provocò un certo subbuglio. Come scrivevano Les Inrockuptibles, era un film che scontentava tutti: “troppo poco messo in scena per gli esteti, troppa messa in scena per i moralisti, troppo manicheo per gli spiriti raffinati, troppo violento per gli animi sensibili, un’immagine della banlieu troppo cattiva per gli ipocriti borghesi di sinistra, ma troppo TF1 (da TV generalista) per i rivoltosi duri e puri”. Insomma, qualcosa che non rispondeva all’orizzonte delle attese. “Troppo”. Fuori dalla grazia di Dio. Eppure il film divenne una specie di oggetto di culto in Francia, grazie anche alla colonna sonora che raccoglieva il meglio della scena rap, Les X-Men, Mystik, 2 Bal Niggets, Krs-One, Iam, Assassin, roba ormai classica del genere. Per poi perdersi, in anni più recenti, in un oblio forzato, una sorta di rimozione dovuta, chissà, a strategie di pacificazione sociale imposte dall’alto o alla normalizzazione forzata della carriera di Richet. Per un paio di anni io e il compagno Sozzo abbiamo cercato invano una copia del film tra gli scaffali delle videoteche. Fino a riuscire a recuperare un dvd in maniera rocambolesca, per quei casi strani in cui la vita e il cinema si combinano esplosivamente. Ora ce lo ritroviamo su Amazon Prime e il titolo idiota con cui viene riproposto in Italia la dice lunga sul processo di appiattimento di un immaginario e di un linguaggio.

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Resta il fatto che oggi, a distanza di tempo, appare ancor più chiaro come Richet avesse il polso dello stato dei luoghi, come dichiarava sin dal titolo del suo esordio di due anni prima. Se État des lieux, girato in un bianco e nero sporchissimo, mostrava una fibrillazione e una furia da “amatore”, Ma 6-T va crack-er metteva in carica definitivamente quella rabbia delle periferie che di lì a poco sarebbe esplosa rischiando di far saltare la cintura.

Ecco, in genere si cita L’odio di Kassowitz, ma sono innanzitutto questi i titoli ad aprire uno squarcio inquieto sugli scenari urbani e le polveriere degli anni ’90. L’industria, poi, riporterà tutto negli innocui ranghi del genere di consumo, ma è qui che prende forma un immaginario e una modalità di racconto destinato ad avere lungo corso per arrivare fino a Les misérables di Ladj Ly. Il fatto è che il film di Kassowitz sembra rispondere alle logiche di un’estetica calata dall’alto. Mentre Richet è al centro dello scontro. Del resto lui è nato e cresciuto proprio tra le HLM di Meaux, i casermoni popolari abitati da beurs, arabi e africani, ben lontani dalle retoriche dell’integrazione e dalle utopie delle unité d’habitation lecorbusieriane. Sa come ci si sente, come si parla, conosce l’odio e il disagio, cos’è la disperazione e qual è il margine residuo di speranza. E non ha dubbi su quale parte scegliere. Quella della “teppaglia”. Mentre Arco Descat, il cosceneggiatore, appare nel gruppo dei più giovani, lui è Djeff, uno dei ragazzi più grandi, disoccupati e violenti. E sarà proprio il suo personaggio a dire, in uno sgangherato tentativo di rimorchio, che il lavoro non c’è, quindi non c’è bisogno di togliersi il cappello davanti agli altri. Per Richet, la tensione delle periferie non è questione razziale, religiosa, è questione sociale, economica, è lotta di classe. Quindi, va risolta in termini rivoluzionari. La sèdition c’est la solution. Derive di frenesia marxista, actes prolétariens (questo il nome della casa di produzione “autonoma” di Richet e compagni), che immaginano un fronte unito dei miserabili e dei giovani incazzati contro il sistema e la police nationale. Del resto i ragazzi di Meaux sparano all’impazzata senza quasi mai colpirsi, come se stessero recitando una parte con le pistole a salve. Mente quando la polizia spara, uccide. E lo fa a ripetizione, in loop, da Meuax a la Garges-lès-Gonesse. Fino a tutte le strade del mondo, è ovvio. Il vero nemico pubblico numero 1, come poi ribadirà il tesissimo remake di Distretto 13, la prima sortita americana di Richet, mai del tutto perdonata, per il modo in cui trasforma gli assalitori senza volto di Carpenter in sbirri corrotti. Fuck tha Police, Assassin de la police, Songo songo d’a Digos…

E il cinema? Anche qui il lavoro è incendiario. Richet sembra riprendere una certa tradizione militante francese, quella cresciuta intorno al ’68, e remixarla con il black americano più politico, da Spike Lee a Boyz n the Hood di John Singleton. Ma in verità mette a dura prova ogni riferimento, lo sottopone a pressione, lo mortifica, fino a farlo esplodere. A cominciare da quei titoli di testa, quasi da manuale molotov godardiano, con la fille au pistolet, Virginie Ledoyen, che insegna a una bambina le tecniche della rivolta armata. Alla fine fa il gesto di spararsi in testa e al cuore, mentre la musica e l’immagine muoiono di sincope. Se il suicidio è astratto, l’autodistruzione è concreta, mentre la guerriglia quotidiana investe la totalità dei rapporti: risse immotivate a scuola, sparatorie selvagge per strada. E poi auto e cabine distrutte, bottiglie incendiarie, selciate, quartieri in fiamme. Richet non analizza, non fa filosofia né sociologia. Dà voce e corpo a una rabbia montante, insopprimibile, a partire dal rap della lingua, che impazzisce ben prime delle schivate di Kechiche o gli scontri generazionali, entre le murs, di Cantet. Ma non indulge alle estetiche di una sottocultura o alle fascinazioni gangsta. Sì, il suo montaggio cerca di cogliere le frequenze e i ritmi di un videoclip, ma alla fine non tiene il passo, si perde nel corto circuito della forma, nell’irregolarità dichiarata, spigolosa delle immagini. Ma 6-T va crack-er è cinema brutalista, nel vero senso della parola, perché mette a vista la ferita aperta che si apre tra il beton brut, il cemento grezzo dei casermoni, tra gli spazi di raccordo uniformi, anonimi, indifferenziati, parcheggi, scale, androni, cortili, parchi tristi e disastrati. Fino all’informe della violenza, distruttiva, febbrile. Contro l’ordine delle cose, sì, ma anche contro la possibilità di un altro sistema. Qui davvero Richet è il regista più incazzato della Terra. E di questa rabbia si ricorderà sempre, nelle spericolate trasformazioni di Jacques Mesrine, nelle derive action di Blood Father, persino nei sottili, inquieti momenti di follia della più innocua delle commedie estive. Perché il furore è un obbligo.

 

Titolo originale: Ma 6-T va crack-er

Regia: Jean-François Richet

Interpreti: Arco Descat C., Jean-Marie Robert, Malik Zeggou, Mustapha Ziad, Hamouda Bouras, Jean-François Richet, Virginie Ledoyen

Distribuzione: Amazon Prime

Durata: 105′

 

Origine: Francia, 1997

 

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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