Made in Italy, di Luciano Ligabue

Più che un omaggio all’Italia, oppure la nostalgia di un paese perduto, l’ultimo film di Ligabue sembra una via di sfogo, fatta di attimi, ralenti e sogni incompiuti, la colonna sonoro definitiva

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Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Cesare Pavese)

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Poco fa, io non sapevo chi fosse Ligabue. Essendo Made in Sudamerica, nata nel lontano Santiago del Cile, sono cresciuta geograficamente aliena all’immaginario cult pop italiano, con una idea scarsa – al massimo, una fantasia sfumata – di come poteva essere l’universo musicale contemporaneo in Italia. A dirla tutta, non ci pensavo proprio. Non pensavo che un giorno avrei vissuto a Roma, nemmeno che mi sarei trovata davanti al terzo film del mitico Luciano Ligabue… comunque, questa è un’altra storia; oggi si parla di Made in Italy, film a cui mi sono avvicinata in un modo leggero, libero, quasi ingenuo. Senza pregiudizi, background né preconcetti. Come un alieno che esplora con una certa perplessità un pianeta lontano, fatto di canzoni pop, testi auto-motivazionali, giacche di pelle e capelli ingelatinati. Che sia un vantaggio oppure no, a volte l’ignoranza può essere il modo più onesto per l’approccio finale.

Il viaggio attraverso l’Italia di Ligabue – come se fosse una parabola – incomincia con un pezzo di fantasia. Prima, il buio. Poi, la voce strappata e onnipresente del cantante che interpreta quasi come una profezia “Tutti mi chiamano Riko“. Con la luce arriva la star, l’alter ego, l’attore/personaggio: Stefano Accorsi nei panni del protagonista Riko, vestito come un Tony Manero del far west, che balla su un palcoscenico di fronte a un pezzo gigante di mortadella, in assoluta solitudine. Mentre Riko prova a trovare il ritmo e l’immagine si muove nei confini tra ludico, onirico e triste, scopriamo che subito all’inizio, in quella scena, c’è tutto Made in Italy: la nostalgia per qualcosa che non c’è più o che non è mai stata, il sognare di essere un altro, il vivere fuori tempo, arrivando sempre un po’ in ritardo, il cinema come via di uscita e la musica – allo stile di Bjork in Dancer in the Dark – come dimensione sospesa dove c’è sempre posto per rifarsi una vita.

Una volta spenta la luce, c’è la buia realtà: certo, Riko non è mai stato una star ma

accorsiun uomo comune, che lavora in un salumificio da 30 anni, è sposato da una vita con Sara (Kasia Smutniak), da cui si allontana senza ritorno apparente, ha degli amici storici con cui si sfoga e prende i pezzi rimanenti di una vita che gli sfugge e un figlio adolescente che sembra essere più risolto di lui. Riko sta vivendo la sua midlife crisis in un modo quasi palese, con tutti i cliché del genere, sospeso tra due mondi a cui non appartiene, con la volontà di prima ma un corpo che non lo accompagna, guardandosi indietro e rendendosi conto di non aver avuto mai un senso e neanche un proposito di futuro. Come se fosse un videoclip, oppure una canzone in repeat dello stesso Ligabue, Riko gira attraverso le sue dimensioni seguito sempre dalla sua colonna sonora, cercando qualcosa che non è in grado di riconoscere ma che sa che gli manca. Finchè l’inevitabile scontro, oppure il colpo di realtà, diventerà anche la salvezza e l’unica forma di mobilità.

La forza che mantiene Made in Italy in movimento e che impedisce che si perda nella banalità, le melodie pop e la vocazione “pop-corn”, è precisamente la frizione tra i diversi tempi: quello che segue il suo flusso naturale, e quello che i personaggi vogliono controllare, rallentare, senza mai riuscire. In uno dei tanti viaggi in macchina verso un bar, Riko chiede al suo migliore amico – depresso e ludopata, ma che si fa chiamare Carnevale (Fausto Maria Sciarappa) – come mai porta in giro un calendario di cinque anni fa. Carnevale sorride, forse non se n’era nemmeno accorto. Mentre la macchina continua a muoversi per il centro di Bologna e l’immagine rallenta, all’angolo c’è un gruppo di ragazzi che ballano entusiasti, collegati ognuno al proprio smartphone, condividendo lo spazio ma non la musica. Il contrasto tra le due immagini, frenesia e ralenti, oppure passato e futuro della stessa realtà, diventa il punto di flessione più interessante del film: il tempo va avanti, le dimensioni cambiano, ruotano, ma continuiamo a essere gli stessi? Oppure è una linea continua, senza inizio né fine? Domande che Riko si fa così, alla fine del viaggio: “Se le cellule umane cambiano completamente ogni sette anni, come facciamo a restare noi stessi?”

26-SCIARPPA_ACCORSI_LEONARDIFoto-di-jarnoiotti©ZooAperto2017-IMG_3827-minMade in Italy ha la particolarità di poter essere tante cose. Un omaggio all’Italia, la nostalgia per un paese che non si ritrova più, una storia d’amore oppure il ritratto di una generazione. Ma soprattutto è fatto di momenti, attimi, micro-storie. Di un gruppo di amici di “mezza età” che decide di andare a Roma come turisti, per osservare da vicino le rovine degli altri e rendersi conto della loro fragilità, per poi finire quasi per inerzia in una manifestazione dove più che seguire un ideale, c’è la voglia di lottare. Di un nome, una star che si ritrae e diventa pezzi di se stessa, testo, canzone, musica pop. Della necessità imperiosa di esprimere un sentimento alla grande, di confessare senza paure quello che si vuole essere, e quello che forse non riuscirai mai a fare. Anche se questi desideri, invece di diventare parte di uno spettacolo, finiscono nel fondo del fiume Po.

Made in Italy forse non ci spinge a comprare l’ultimo disco di Ligabue, nemmeno a sintonizzarci su una delle sue canzoni mentre chiacchieriamo con un vecchio amico in macchina. Ma certamente fa aspettare, con genuino interesse, il suo prossimo film.

Regia: Luciano Ligabue
Interpreti: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Sciarappa, Walter Leonardi, Filippo Dini, Tobia De Angelis, Alessia Giuliani, Gianluca Gobbi
Origine: Italia, 2018
Distribuzione: Medusa
Durata: 104′

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