Maggie Cheung, il volto trasparente dell'anima.

Il volto di Maggie Cheung, nel suo impalpabile trasmigrare senza ritorno, nella sua elegante trasparenza dell'anima, nel suo essere spoglio di una sola tonalità affettiva, ci fa desiderare di perderci nella vita (del cinema), la cosa che può da sola muoversi, emozionare lo sguardo, distrarlo, sedurlo, condurlo con sé.

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"La frangia dei capelli che ti vela / la fronte puerile, tu distrarla / con la mano non devi. Anch'essa parla di te, sulla mia strada è tutto il cielo, / la sola luce con le giade ch'ài / accerchiate sul polso…" (Eugenio Montale)


 


Volti. John Cassavetes, parlando delle attrici del suo film Faces/Volti, ha detto: "Le donne hanno interpretato i loro ruoli cercando nel profondo le ragioni per fare esistere i loro personaggi. Esse hanno esposto le loro emozioni e ciò che ne è risultato è stata una profonda innocenza". Un volto ha in sé un non so che di cangiante che lo sguardo non può contenere, qualcosa che fugge al tocco dello sguardo. Un volto è infisso come uno squarcio nella prensilità inafferrabile del sogno, nella voluta, velata sinestesia del piacere, con cui si rincorrono i propri amori, fino a prolungarne l'assenza, per continuare a godere dell'inesauribilità del desiderio. E' in una eventuale, conventuale passeggiata claustrale dentro se stessi, in un ossessivo vampirismo dello sguardo per i volti amati, che si riflette la maschera, con cui poter rivelare i propri sentimenti, quella lunga scia d'amore illesa, elisa, elusa nella vagheggiante illusione che la parola possa catturarne l'incanto con la casa delle forme, in cui la parola stessa prende dimora e ospita affetto e pensiero vivendo una propria memoria. La parola odiata/amata, non potendo/volendo incarnare l'essenza/assenza dei corpi/volti, attraverso la scrittura, pre-testo dell'immagine, di un'immagine che vive fuori da ogni traccia scrittoria di encausta (non) visibilità (ricordate Truffaut, I 400 colpi, lo scolaro seduto al primo banco che cerca di ricopiare, senza riuscirci, la poesia dettata dal maestro? L'inchiostro sbava sui fogli, che finiscono, strappati uno dopo l'altro. Truffaut esprime l'impossibilità di poter fissare, una volta per tutte (in un solo volto, in un solo film?) l'inesausta, inesaudita inquietudine delle emozioni, il loro sfinente, infinito gioco d'amore nella vita, nel cinema, nella poesia). E' poca cosa la parola (dettata, scritta), disegnante l'erranza dello spirito esiliato dall'immagine vista, visitata, nella sua enunciante, annunciante semantica, inseminata da fantasie, sensi, passioni, amori, labbra, sguardi, segni disseminati da un volto; come quello di Maggie Cheung che, nel suo impalpabile trasmigrare senza ritorno, nella sua elegante trasparenza dell'anima, nel suo essere spoglio di una sola tonalità affettiva, ci fa desiderare di perderci nella vita (del cinema), la cosa che può da sola muoversi, emozionare lo sguardo, distrarlo, sedurlo, condurlo con sé. Così, il volto diSu Li-Chun/Maggie Cheung nel film di Wang Kar-wai In the mood for love (1999), ci dice, in un breve incontro d'amore, del sogno delle immagini, delle voci e dei silenzi, degli attimi smarriti, ma anche del distacco, della lontananza e della sofferenza (in una parola della vita?). "Credevo di avere un oceano di tempo per poter pensare cosa dirti", dice Billy Chapel/Kevin Costner a Jane Aubrey/Kelly Preston in Gioco d'amore di Sam Raimi, ma l'imprevedibilità della vita manda in frantumi ogni suo progetto (ogni forma); l'autenticità dei sentimenti è indicibile, così a Chow Mo-wan/Tony Leung, nel finale di In the mood for love, non rimane che confessare il proprio inconfessabile amore in silenzio, al monumentale reliquiario del tempo trascorso nella sua liquida, fluente incomprensibilità; eppure vorremmo poter "raccogliere tutte le ore in un abbraccio", nella flagranza di un gesto, in cui il tradimento è un consegnarsi/donarsi senza sofferenza (alla vita).

Maggie Cheung è nata ad Hong Kong il 20 settembre 1964. Nel 1972, all'età di otto anni, si è trasferita in Inghilterra con la famiglia, terminato il liceo è ritornata nella città natale, dove ha iniziato la carriera di modella. Nel 1983 è arrivata seconda al concorso di Miss Hong Kong e nello stesso anno ha ricevuto le sue prime proposte per la televisione e per il cinema. La notorietà, in patria, è arrivata nel 1985 con la serie Tv Police story (proseguita nel 1988 con Police story II e nel 1992 con Police story III, Supercop), in cui interpretava il ruolo della fidanzata del protagonista Jackie Chan. Il primo importante incontro della sua carriera è stato, nel 1988, con Wang Kar-wai, per il quale ha recitato in As Tear Go By, il film che le ha permesso di rivelare la sua versatilità e il suo talento di attrice, dandole l'opportunità di allontanarsi dai ruoli scanzonati di inizio carriera. Nel 1992 Maggie è stata la prima attrice asiatica a vincere l'Orso d'Argento al Festival di Berlino per la migliore interpretazione femminile con il film Center stage (The actress) di Stanley Kwan, incarnando un'attrice tragica cinese degli anni '30 e prestando il suo volto all'innocente infanzia del cinema. Nel 1994, a soli trent'anni, sembrava decisa ad abbandonare il cinema, come, in seguito, ha dichiarato in un'intervista: "Ne avevo abbastanza tanto da aver rifiutato diverse proposte. Pensai davvero di finirla col cinema; volevo uscire dal suo piccolo mondo e vivere una vita vera". Poi, nel 1996, il regista francese Olivier Assayas, con il quale è stata sposata dal 1997 al 2003, l'ha scritturata per Irma Vep. Nel film Jean Pierre Leaud è il regista René Vidal che propone a Maggie (nei panni di se stessa) di interpretare il ruolo di Musidora nel remake di Les vampires di Louis Feuillade. "La storia molto bizzarra mi ha interessato. Mi piaceva l'occasione di interpretare me stessa e ho accettato" ha dichiarato l'attrice. Il pallore del viso, il rossore delle labbra, il cielo indistinto che avvolge la donna, i guanti, la tutta di pelle nera, la fascia nei capelli rendono la figura di Irma animata da una contemplazione per tutti gli elementi sensibili che la formano, fino a diventare una cara ossessione visiva, una forma di dolce vampirismo dello sguardo. L'anno seguente ha interpretato Chinese box al fianco di Jeremy Irons e Gong Li, e nel 2002 Hero di Zhang Yimou, in quest'ultimo film la diafana leggerezza del corpo di Neve che vola, questo il nome del suo personaggio, è affascinata dalla policroma fotografia di Christopher Doyle (collaboratore di Wang Kar-wai per In the mood for love e 2046, entrambi interpretati dall'attrice hongkonghese), permettendole di lasciare sullo schermo la traccia metaforica di una purpurea nevicata. Con il suo ultimo film, Clean (2004), diretto ancora da Olivier Assayas, Maggie Cheung ci ha donato un nuovo volto, più vivo e cangiante, fatto di leggerezza e sofferenza, rischiarato da lampi improvvisi che bruciano l'anima e illuminano gli occhi, richiamando alla mente altri versi di Montale: "I suoni di cristallo nel tuo nido / notturno ti sorprendono, dell'oro / che s'è spento sui mogani, sul taglio / dei libri rilegati, brucia ancora / una grana di zucchero nel guscio / delle tue palpebre".           

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