Malinteso Felice – Intervista a Davide Ferrario per "Tutti giù per terra"
Il regista, che di recente ha presentato il suo ultimo lavoro La luna su Torino al Festival di Roma, ha raggiunto le Poltrone presso lo Studio Campo Boario di Alberto D’Amico per concedere un’intervista – che si è svolta in un’atmosfera di grande amicizia e simpatia – le cui riflessioni hanno riguardato la città di Torino, la visione del cinema propria del regista, la situazione del cinema contemporaneo e dell’Italia.
Ricordiamo che i prossimi appuntamenti della rassegna Malinteso Felice sono:
Martedì 3 dicembre: "Attenberg", di Athina Rachel Tsangari (Grecia, 2010)
Martedì 10 dicembre: "Cast away on the moon", di Lee Hae-jun (Corea del sud, 2009)
Martedì 17 dicembre: "Historìas minimas", di Carlos Sorin (Argentina, 2002)
Di seguito la trascrizione completa dell’intervista:
Com'è cambiato il suo sguardo su Torino a partire da Tutti giù per terra, passando poi per Dopo Mezzanotte, Tutta colpa di Giuda, fino all'ultimo film presentato al Festival di Roma La luna su Torino?
Non so se è cambiato lo sguardo, è cambiata la città probabilmente. Dalla città della Fiat o del post Fiat di Tutti giù per terra, alla città post olimpica de La luna su Torino. Ma soprattutto credo che la cosa affascinante di Torino, per me che non sono torinese, è che la puoi pensare senza i torinesi mentre per le altre città italiane grandi è difficile, ad esempio è difficile pensare Roma senza i romani o Napoli senza i napoletani e lo stesso vale anche per Milano anche se in musica minore. Torino è una città più astratta, non è legata al regionalismo o a chi ci abita, è un posto con una storia metafisica, è un luogo dell'anima, ed è un posto che permette di essere guardato. Quindi il mio rapporto con Torino è slegato da questioni di natura culturale o regionale. E’ proprio una città nella quale è possibile avere una visione, e per un regista questo è il massimo.
Visioni e citazioni, come lo sguardo sulla Mongolia seguendo il 45° parallelo che sembra guidare molti dei suoi lavori.
Il 45° parallelo è un'astrazione ma anche un luogo fisico: se si attraversano un paio di autostrade del nord si trova il cartello che dice 'siamo sul 45° parallelo a metà strada tra il Polo Nord e l'Equatore'. Sembra un posto normale eppure è un posto arcano, devi andare a scoprire la magia, non è evidente. Sei nel mezzo della campagna della Pianura Padana dove c'è poco da guardare apparentemente. In tutti i miei film sul 45° parallelo cercavo di raccontare proprio questo, di dire che non devi andare in Mongolia per sentirti straniero. Una volta con Marco Paolini ci siamo divertiti a parlare di queste cose, io dicevo che è molto bello sentirsi straniati nel posto in cui si abita e lui parafrasando un famoso slogan della lega 'Padroni a casa nostra' lui ha detto 'vabbè, allora stranieri a casa nostra'. Secondo me questa è la chiave, usare la fantasia per trovare qualcosa di nascosto nel posto che ti sembra così ovvio. Credo che questo spieghi anche il mio rapporto con Torino:
Tornando al film Tutti giù per terra, lo dedica al padre del free cinema Lindsay Anderson. In che modo è ancora attuale quel modo di fare e di guardare al cinema?
La dedica a Lindsay è prima di tutto un fatto privato, eravamo molto amici e lessi della sua morte mentre andavo al Festival di Venezia nel 1994, quindi prima di Tutti giù per terra, e ho sempre pensato che fosse necessario dire questa cosa, il debito nei confronti di quel tipo di cinema. Free cinema, cinema libero, è un cinema al di là dell'etichetta storica di quel periodo sul cinema inglese, è l'idea che puoi fare un film senza regole e che, come diceva Fassbinder, i film liberano la testa. Quindi cercare la libertà per lo spettatore ma anche la libertà nel modo di fare il film, fregarsene delle convenzioni di ripresa quindi inquadrature sghembe, fregarsene delle regole di montaggio, il naturalismo (che se un personaggio entra da una porta deve uscire dall'altra, la destra accordata con la sinistra). Credo che la gente sia interessata a vedere delle belle immagini e la connessione tra le belle immagini per creare un discorso. Ho sempre pensato che sia fondamentale come racconti una storia ma come racconti una storia non deve mai superare la storia stessa. So che ci sono molti miei colleghi che amano 'essere stilosi', essere riconoscibili per lo stile, ma lo stile è anche uno strumento per raccontare una storia. I miei film sono diversi l'uno dall'altro perchè ogni storia chiama il suo stile, non è il regista che deve imporre uno stile su tutte le cose. Se si guardano Tutti giù per terra e Dopo mezzanotte non sembrano dello stesso regista ma io ho sempre pensato che contano più i film dell'autore.
C'è una linea costante che è la presenza della musica nei suoi film, in Tutti giù per terra la musica (in cui primeggiano i C.S.I.) sembra anticipare gli eventi.
Bè si, ci sono molti fili rossi che collegano tutti i miei film anche se non mi metto lì a esplicitarli, a dire ‘sto facendo una cosa stile Ferrario’. La musica è interessante perchè il cinema è un paradosso ma non è un arte visiva. La cosa che caratterizza il cinema è il tempo. Come diceva Tarkovskij nella sua bellissima raccolta di saggi Scolpire il tempo, il cinema consente di mutare la percezione del tempo: lo puoi accorciare, lo puoi allungare, puoi condensarlo, sincoparlo, dilatarlo, e la cosa più simile a questo è la musica. Credo che la musica e il cinema vadano assolutamente di pari passo perché si influenzano a vicenda. L’uso della musica nei miei film non è stato quasi mai di commento, la musica interagisce, è un personaggio e in Tutti giù per terra molte cose che uno potrebbe definire “messaggio del film” (definizione orrenda) passano molto più dalla musica che non dal dialogo.
Tornando alla nostra idea di Malinteso Felice, come potrebbe essere proiettato nel personaggio di Walter, di Tutti giù per terra, che si muove in questo mondo di piaceri ma senza gioia?
Direi che è abbastanza impressionante pensare che Tutti giù per terra è stato realizzato 17 anni fa, nel 1996. Se lo guardi adesso dici: è cambiato tutto ma non è cambiato niente. Sempre una fotografia, mutate piccole cose, del mondo così come è adesso. E’ il racconto di qualcosa che stava cambiando allora e che evidentemente ha influenzato il vivere. A me faceva molto colpo quella storia lì non perché raccontasse qualcosa di nuovo ma perché raccontava il principio di rassegnazione. Walter capisce perfettamente tutto quello che è sbagliato, fa un’analisi dei mali del mondo, della sua posizione e non è capace di fare nulla per cambiare. Questa è diventata, ahimè, la condizione di tutti i giovani, non solo di adesso. 17 anni fa era un pensiero, una tendenza, non ancora una condizione. Questo permette di vedere il film in modo molto attuale ma anche con una certa malinconia perché i guai evidenziati da quella storia sono peggiorati. La gente è sempre più sola. Una cosa interessante per capire il film è che nel libro di Giuseppe Culicchia il padre quasi non c’era, era una sorta di cartone animato, io invece ho voluto che nel film fosse reale e che chiudesse questo dialogo surreale. Come se le due sconfitte, quella di Water e quella del padre, fossero insieme un principio di resistenza. Oggi forse anche quella resistenza viene cancellata e allora il Malinteso Felice è forse quello: di aver capito certe cose 17 anni fa e aver pensato che avrebbero potuto mutare verso il meglio e, ahimè, siamo ancora qui a guardarle e a dirle che avevamo ragione allora. Ed è sempre brutto pensare di aver ragione dopo.
Diventa un malinteso infelice, maturando.
Diciamo che il malinteso felice è quello di aver fatto il film perché il fatto estetico riscatta qualunque nefandezza o tristezza che racconti. Comunque in quell’ora e mezza, in quell’attimo più o meno lungo che il film racconta agli spettatori attraverso la storia, secondo me sei salvo. Come dicevo prima, Fassbinder parlava del fatto che i film liberano la testa, dopodiché il film finisce, esci dalla sala e quella è la vita e ciascuno deve vivere la sua. Non c’è nessun film che ti salva la vita.