Mancanza-Inferno e Mancanza-Purgatorio. Il cinema di Stefano Odoardi

La Mancanza del dittico di Stefano Odoardi nelle sue due opere Inferno e Purgatorio è simile a quella odierna: l’Aquila post-terremoto e la Sardegna anticamera dell’assenza della quotidianità

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Un Angelo forse s’aggira errabondo tra le grandi strade vuote di Roma. Forse, appunto. Potrebbe farlo e noi non lo sapremmo nemmeno, ancora rinchiusi tra le quattro mura domestiche in attesa che il Nemico invisibile (e sull’esiziale linguaggio guerresco massmediale la nostra virusfera ha spesso riflettuto) smetta di infestare le nostre città. Siamo in un limbo, sospesi tra Inferno e Purgatorio, in attesa del Paradiso che altro non è che la normalità prima deprecata e deprecabile. Si avverte la mancanza, mirabile miracolo coronasferico, sia del passato che del futuro. Così la mente per angoscia oppositiva vaga raminga per associazioni ed arriva inopinatamente al dittico di Stefano Odoardi Mancanza – Inferno e Mancanza – Purgatorio per provare a spiegarsi l’odierna situazione. Una trilogia in divenire, con il Paradiso che nonostante le ovvie difficoltà si sta girando in questi giorni, quella di Odoardi che in questi due episodi aveva però già narrato in maniera preziosa l’abisso sentimentale del vuoto. Filmmaker che si situa al singolare crocevia tra performance, cinema, letteratura e musica l’artista affida la sua inquieta indagine audiovisuale all’Angelo interpretato da Angelique Cavallari che, ispirata dalla Elegie Duinesi del poeta Rainer Maria Riilke, fa da Virgilio allo spettatore in questo viaggio contemporaneamente oltremondano e terreno. Una figura però priva di ali, questo essere inevitabilmente di wendersiana memoria, e che addirittura nel Purgatorio farà vedere un seno ancora umano (troppo umano? molti di noi il divino lo sanno immaginare solo in forme antropiche) basculante sia fisicamente che poeticamente tra l’Aquila post-sisma e un cargo navigante nei mari della Sardegna. Entrambi, abruzzesi e sardi, spesso popolazioni incomprensibili agli occhi degli stessi italiani e che Odoardi riprende proprio in questa dimensione specifica, condannati senza colpa forse perché incapaci di esprimere il loro arcaico dolore. In Mancanza-Inferno la parola “terremoto” ad esempio non viene mai pronunciata dai venti dannati che si trascinano senza requie all’interno della piazza delimitata da macerie e reti d’acciaio. Essi ricordano vagamente solo il suono della tragedia (il cagnolino che coi suoi guaiti da domestico Cerbero sveglia l’anziano padrone prima del crollo) ma hanno ben marcate sui loro volti oramai spenti le conseguenze della perdita che ne è scaturita. Odoardi fa sì che l’improvvisazione dei suoi attori non professionisti attraverso un lento, pacato ma inesorabile lavorio testimoniale erompa il muro delle numerose mancanze esperite.

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Anche in Mancanza-Purgatorio i 17 abitanti del quartiere Sant’Elia di Cagliari, una delle innumerevoli periferie disagiate delle nostre città, raccontano con parole confuse ma pregne l’insostenibile attesa di questa condizione. A differenza degli aquilani loro non conoscono il motivo per cui si trovano in un litorale disadorno di vita ed aspettano che qualcuno gli comunichi qualcosa, fosse pure la dannazione che contraddistingueva gli altri. Alcuni sperano di salvarsi, solo pochi credono di esserlo già. Inguainati per quasi tutta la la durata del lungometraggio in giubbotti di salvataggio essi in realtà provano a galleggiare in mezzo al mare terribile dell’incertezza attraverso le parole che si scambiano, i dialoghi con la telecamera che ne riprende volti ed emozioni in un fatalistico bianco e nero. Ma un deciso cambio di prospettiva tra le due opere interviene anche per quanto riguarda la sua protagonista. Se in Inferno l’Angelo s’aggirava declamando il suo dolore tra le rovine del capoluogo abruzzese – molto riuscita la scelta di Odoardi di riprendere le stradine meno battute dai numerosi documentari che si sono seguiti, a dimostrazione di come le scosse telluriche abbiano segnato anche le vie apparentemente meno colpite – nel Purgatorio la sua presenza diventa laconica, in balia più dei marosi del suo dramma che di quello degli umani che aveva provato a consolare nel primo episodio del dittico. Lì il sussurro del verso “Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca” era ancora il canto elegiaco di una creatura divina, scesa sì senza ali sulla Terra ma ancora sporcata (l’anacronistico formato 16mm con cui viene filmata a fronte della più realistica alta definizione digitale con cui vengono ripresi i dannati) di superiorità metafisica: la benedizione ha d’altronde sempre un rapporto gerarchico. Nel suo secondo passaggio terreno la Creatura perde definitivamente i suoi connotati mistici e sembra capire il motivo del suo viaggio. Come tante altre, è una madre che ha perso la figlia e si strugge nella sua assenza, nella sua, appunto, mancanza. Che il Paradiso consista nella riconciliazione col sangue del suo sangue è similitudine anche qui vicina al nostro tempo: la riconquista di qualcosa che si era perduto senza nemmeno accorgersene.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3 (2 voti)
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