Mani nude, di Mauro Mancini
Il regista adatta il romanzo omonimo del 2008 riuscendo a restituire con agghiacciante precisione il clima di violenza e ferocia, ma perdendo solidità sul dramma familiare. RoFF19. Grand Public

“Non c’è nessun inferno… e neanche il paradiso. La vita è qui. La ricompensa è qui. Il dolore è qui”. Si apre con una citazione di Edward Bunker, Mani nude, secondo film del regista Mauro Mancini dopo Non odiare, presentato alla Settimana della Critica di Venezia nel 2020. Adattamento del romanzo omonimo di Paola Barbato, scrittrice poliedrica che nel corso della sua carriera ha spaziato dal thriller alla narrazione per ragazzi, oltre ad essere una delle sceneggiatrici di Dylan Dog, il film riesce a replicare fedelmente la violenza e la coercizione attorno alle quali il libro ruota.
Mani nude racconta la progressiva deumanizzazione del giovane Davide, ribattezzato Batiza, rapito una notte a una festa con gli amici e gettato in un camion per combattere “come un cane” fino all’ultimo sangue con uno sconosciuto che resta nascosto dalla penombra. Lo scontro si svolge fuori campo, ma sentiamo distintamente le urla dei due che sembrano latrati, a voler sottolineare lo stato animalesco in cui il ragazzo è destinato a trasformarsi per sopravvivere agli incontri di lotta clandestini che il carceriere Minuto, spalla di un misterioso boss criminale, organizza ogni notte nei luoghi più disparati (teatri, ville private, depositi abbandonati) per il gaudio di un pubblico assetato di sangue e violenza. Ed è proprio il movimento circolare del camion sul terreno sabbioso a suggerire la circolarità degli eventi che coinvolgono Batiza e Minuto, capaci di instaurare un legame filiale ricolmo di solitudine e disperazione, di un amore che si confonde con l’odio per se stessi, su cui pendono il desiderio di vendetta e il bisogno di redenzione. La prigionia, la lotta, la morte, allora, non sono più solo eventi catastrofici che si abbattono indiscriminatamente sugli uomini di Minuto, ma la giusta punizione che ciascuno di loro è convinto nel profondo di meritare per espiare la propria indicibile colpa.
Vincitrice del Premio Scerbanenco nel 2008, l’opera di Paola Barbato è stata definita tra le più macabre, spietate, orrorifiche della sua produzione letteraria e Mancini è abilissimo nel ricostruire le scene della reclusione e degli incontri, che diventano coreografici momenti di tensione e angoscia, attraverso il lavoro eccellente operato sulla fotografia – che vira a intermittenza da tinte calde e sature a toni freddi verde-grigiastri – e le scenografie. Il corpo teso e sofferente di Francesco Ghegi restituisce appieno la lacerante trasformazione in Batiza, di cui Mancini non ci risparmia un colpo, e che gronda sangue e bava, mentre le metalliche musiche di Dardust ovattano le orecchie, facendoci sprofondare nei meandri infernali della natura umana che cede il passo all’abisso della ferocia. Ma quando il film, da contemporaneo Fight Club (ma i riferimenti si sprecano, da Snatch a Never Back Down, dal recente Road House fino a Warrior), nella seconda parte si trasforma in un dramma familiare ricorrendo ai flashback, soffre di più la mancata aderenza al libro, seppur inseguendo giustamente una parabola personale e distintiva e dando finalmente a Gassmann quel margine necessario a squarciare la rigida imperscrutabilità di Minuto, e lasciar affiorare, anche solo per il tempo di un ricordo, di un addio, un’anima che, anche di fronte al tormento più straziante, non appassisce mai del tutto.