Manodrome, di John Trengove

John Trengove cerca di scavare nella profondità di un uomo dai mille nodi irrisolti, per svelare tutte le tensioni nascoste dietro la “cultura” maschilista. In concorso alla #Berlinale73

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John Trengove cerca di scavare nella profondità di un uomo dai mille nodi irrisolti, distante anni luce da qualsiasi possibilità di quadratura del cerchio. Per svelare tutte le tensioni nascoste dietro le affermazioni di un’egemonia maschile e dietro la “cultura” maschilista. Il suo protagonista, Ralphie, si guadagna da vivere come autista di Uber a New York, ma non si tratta certo di grandi cifre. La sua compagna è in attesa di un bambino. Ma le preoccupazioni economiche non sono il suo unico problema. C’è un’inquietudine profonda nei suoi atteggiamenti, un nervosismo che nasconde una rabbia repressa devastante. E a liberarla è l’incontro con una comunità di soli uomini, una specie di setta di suprematisti maschi, diciamo così, che predicano la necessità di riappropriarsi di un potere personale e di genere, oltre ogni paura, fragilità, dipendenza dalle donne.

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Nel delineare il profilo psicologico del suo protagonista, Tengrove è fin troppo accurato nel non tralasciare nessun indizio, arrivando persino a materializzare le visioni. Un’incompresa omosessualità, i cui primi indizi sono la tendenza all’omofobia e gli improvvisi cali di desiderio nei confronti della propria compagna. Fino alla vera e propria ossessione conflittuale per un uomo che frequenta la sua stessa palestra (di colore e, non so perché, il dettaglio sembra quasi un cliché). C’è poi l’insicurezza di fondo, a cominciare da una mancanza di fiducia nel proprio corpo, nonostante le estenuanti sessioni di body building cui si sottopone. E, naturalmente, alla base una ferita non cicatrizzata dell’infanzia, il rapporto non risolto con il padre e con l’idea di paternità. Non è un caso che, in un modo o nell’altro, Ralphie si scagli contro tutti i “padri” con cui entra in contatto. Persino il povero Babbo Natale che fa pubblicità al market in cui lavora Sal.

In fondo, nella diagnosi di Tengrove, tutti i nodi vengono al pettine. Ma proprio per questo, nonostante uno sguardo non scontato su New York, il film finisce per assomigliare a un meccanismo a orologeria. Al punto che le tensioni che esplodono improvvise, in maniera teoricamente incontrollata, assomigliano più che altro alle ripetizioni percussive di un ritmo prestabilito. Con l’immancabile crescendo finale, che sovraccarica la storia e ancor più le immagini, i suoni, le musiche, quasi come fossero proiezioni soggettive sotto effetto doping. Fino alla distorsione in un grottesco stonato. Anche la performance di Jesse Eisenberg si surriscalda irrimediabilmente, nonostante i tentativi non indifferenti di dare credibilità al personaggio di Ralphie. Resta solo il finale a dar respiro. Non tanto per lo scioglimento del conflitto interiore. Quanto per l’apparizione di Gheorghe Mureșan, che con la sua statura gigantesca e il suo inglese stentato, sembra venire da un altro pianeta e parlare una lingua aliena. Che parla di altri mondi e altre storie.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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Il voto dei lettori
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