Maria, di Pablo Larraín
In questo biopic in tre atti raccontato dai fantasmi di Maria Callas (notevole Angelina Jolie) ci restano attimi di cinema purissimo che sfuggono all’ossessione del controllo.

“Questa autobiografia si sta scrivendo davanti ai miei occhi, attraverso le visioni, non so nemmeno se tu sei reale”, dice Maria Callas (Angelina Jolie) a sua sorella Iakinthi (Valeria Golino) in una delle scene più belle di questo Maria. Ripartiamo da qui: lo spessore teorico dei film di Pablo Larraín si è sempre manifestato nella decostruzione delle figure pubbliche e/o dei dispositivi di potere attraverso i mezzi espressivi del cinema. Il regista cileno, in quest’ultimo film, arricchisce la sua folta galleria di icone novecentesche da riconfigurare in quel “contemporaneo” scarto tra immagine pubblica e fuori campo privato, quindi tra memoria condivisa e sguardo soggettivo sul mondo. Una costante oscillazione tra ragione e istinto, controllo (delle forme) e derive (del visibile), mito imbalsamato e anelito di vita: “dimentica la musica e vivi!”, risponde Iakinthi alla sorella minore tentando di scuoterla dalla sua depressione.
Maria Callas è una delle più grandi artiste del suo tempo, una persona reale che ha prodotto immense passioni e idolatria, quindi ha lasciato in eredità un’enorme archivio di immagini che la tengono imprigionata nel suo stesso mito. Confinata nella sua casa parigina e accudita dai fedeli collaboratori Bruna e Ferruccio – notevoli le interpretazioni di Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, capaci di disegnare percorsi umani complessi in poche pennellate –, precisamente nel settembre del 1977, nei suoi ultimi giorni di vita – quando i tanti medicinali che assume la fanno consapevolmente dialogare con i suoi fantasmi -, la Divina vuole ormai cantare solo per se stessa eliminando ogni “registrazione perfetta” delle opere passate. Perché la vita alberga nelle imperfezioni contingenti e non può essere riprodotta.
E il film? Larraín continua a muoversi (con alterne fortune, vedi il deludente El Conde) tra innesti di immagini d’archivio e storicizzazione dei supporti, bianco-e-nero e colore, in un processo memoriale ormai collaudato (e forse un po’ stanco). Da questo punto di vista sono due le dimensioni che il film decide di sondare nel suo serrato pedinamento fisico ed emotivo: il volto di Maria Callas e/è quello di Angelina Jolie. Un primo piano del pathos che la cantante vuole sottrarre alla vista dei suoi contemporanei e che l’attrice rimette in scena nel 2024 in un vertiginoso slittamento (auto)biografico con il suo percorso umano di diva fragile. Una performance potente e credibile, spesso costretta in scultorei primi piani, ma sempre capace di minimi moti del volto che accendano terremoti emotivi.
L’altra dimensione è l’ambiente della casa, a volte claustrofobico e a volte aperto all’irruzione dell’imprevisto. Esattamente come in Neruda, Jackie e soprattutto in Spencer, lo sforzo scenografico diventa un elemento decisivo per ogni processo interpretativo: la casa parigina è un ambiente organico, una sorta di spazio psichico che impasta presente e passato, statue classiche e fotografie private, in un reticolo di stanze comunicanti e porte aperte/chiuse. Il grande pianoforte che per l’intera durata del film viene spostato da una stanza all’altra diventa il facile simbolo di un rimosso traumatico: l’abbandono delle scene di una delle più grandi cantanti liriche della storia. “La Callas”, “La Divina”, vaga per la sua casa (e per estensione a Parigi) alla ricerca di fantasmi privati e adulazioni pubbliche che possano raccontarla dicendo la verità. Perché il confine tra il palcoscenico e la stanza da letto si è completamente perso: “la mia casa è il palcoscenico“.
Fermiamoci qui. Il film di Larraín, esattamente come la sua protagonista, è ossessionato dal controllo totale dell’inquadratura e degli elementi in scena, degli inserti d’archivio veri o ricostruiti, ma non riesce sino in fondo (e per fortuna) a evitare gli shock emotivi e le libere associazioni di immagini che si creano spontaneamente. Il fiume di memoria di Maria mette insieme Jackie e Marilyn, JFK e Onassis, amori e fallimenti, La Traviata e Anna Bolena, in un flusso di ricordi senza tempo che continua a lavorare nella nostra memoria dopo la visione. Il manifesto di Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel, che per un attimo balena nell’ultimo tentativo di cantare in pubblico, è una virgola intertestuale che rafforza l’interpretazione prismatica del tempo e delle emozioni oltre l’imbalsamazione delle immagini. Insomma, in questo austero biopic in tre atti raccontato dai fantasmi di Maria Callas ci restano attimi di cinema purissimo che sfuggono all’ossessione del controllo… tanto basta
Titolo originale: id.
Regia: Pablo Larraín
Interpreti: Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Kodi Smit-McPhee, Valeria Golino, Haluk Bilginer, Vincent Macaigne, Aggelina Papadopoulou, Stephen Ashfield, Caspar Phillipson, Lydia Koniordou, Erophilie Panagiotarea, Jörg Westphal, Philipp Droste, Alessandro Bressanello, Paul Spera, Kay Madsen, Lyès Salem
Distribuzione: 01 Distribution
Durata. 124′
Origine: Italia, Germania, USA, Cile 2024